giovedì 12 febbraio 2009

Una voce fino in fondo: Milk.




Dare voce alla minoranza, dare voce all'emarginazione, mostrare l'evidenza di ciò che la compone. Il film si apre su un uomo, nel momento in cui sta registrando il proprio discorso, forse l'ultimo. E' in una stanza vuota e parla attraverso un registratore, si narra e narrandosi si rende evidente a se stesso, si percorre per essere mostrato tutt'intero come in un confiteor dove il fine è essere assolto, ma nel senso di "sciolto, slegato" da sé, per farsi voce comune e rendersi fino in fondo presente. Quest'uomo è Harvey Milk, primo uomo politico dichiaratamente omosessuale ad aver raggiunto una carica pubblica negli Stati Uniti e la storia narrata attraverso il film di Gus Van Sant, è la ricostruzione di alcune vicende che hanno caratterizzato il percorso di presa di coscienza, attivismo e rappresentanza che Milk ha intrapreso, facendosi primo ispiratore del movimento gay di quegli anni. Lo spettatore assiste e sembra accompagnato docilmente, con generosità, da quella voce narrante e dalle sequenze filmiche, attraversando come per una lacerazione che si apre fino a compiersi al termine della visione tutto lo spazio di separazione che gli dona una visuale privilegiata e la capacità di giudicare, egli si accorge che ciò che viene messo in scena principalmente è lo "svelamento": Harvey che invita ogni omosessuale a dichiararsi dinnanzi alla comunità, educa allo sguardo una società che si rende cieca e violenta per paura; è così che noi spettatori ci accorgiamo di aver colmato quello spazio, cioè attraverso la lacerazione della nostra capacità di distinguere e distinguerci, scoprendo di comprendere quella vita messa in scena perché non più capaci di estrarre ciò che veniva chiamato gay come un giudizio, da ciò che è una vita nel suo svolgersi. Quella voce si fa specchio di ogni voce, di ogni minoranza propria della nostra interiorità. Allo stesso tempo nella scelta di inserire sequenze di filmati storici che sono memoria condivisa, si nota la volontà del regista di riproiettare chiunque all'interno degli eventi, ricordare che è una storia "condivisa" per molti aspetti e che lo è proprio per il fatto che ha alla base una storia individuale, questo forse il motivo di una mistione non forzata, ma solo accennata, di stile documentaristico e narrazione finzionale.
In ultimo, però, come sempre, c'è da chiedersi se si fosse potuto raccontare in modo diverso, soffermarsi su altri temi, agganciarsi ad altri sentimenti...ciò che appare chiaro è come Van Sant abbia calcato sulla forza d'urto, sull'atmosfera energica, sull'impatto civile, che le vicende di Milk e il suo esempio hanno portato, girando più volte sequenze in cui a essere soggetto è la massa, l'urlo plurimo e indistinto, che attraverso la propria legittimazione faceva breccia all'interno del soffocamento di una società bigotta. Ma poca, o quasi nulla, è la narrazione di uno degli ostacoli, certamente attualissimo, più difficilmente sormontabile, ovvero il dissenso interiore e interno: interiore perché è il dissenso che il proprio io fa a se stesso negandosi, nascondendo le sue inclinazioni, attanagliandosi intorno alla mancanza di risposte che immobilizza; interno perché è quello che può venire dai componenti del movimento stesso, che non vogliono sacrificare i valori di cui si sentono fondati e che entrano in contraddizione con se stessi, rivendicando però la legittimità di tale contraddizione (basta guardare al fenomeno degli omosessuali-cattolici). Questo nel film viene forse a mancare o ad ogni modo è solo accennato qua e là, senza dargli il giusto peso, forse perché esso ha un andamento a climax, che trasporta per ritmo indipendentemente dallo sviluppo degli argomenti che vengono toccati...ma forse è anche vero che altrimenti sarebbe stata un'altra storia.

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