domenica 29 novembre 2009

Storia di un impiegato, n.3


Sogno numero due

Imputato ascolta,
noi ti abbiamo ascoltato.
Tu non sapevi di avere una coscienza al fosforo
piantata tra l'aorta e l'intenzione,
noi ti abbiamo osservato
dal primo battere del cuore
fino ai ritmi più brevi
dell'ultima emozione
quando uccidevi,
favorendo il potere
i soci vitalizi del potere
ammucchiati in discesa
a difesa della loro celebrazione.
E se tu la credevi vendetta
il fosforo di guardia
segnalava la tua urgenza di potere
mentre ti emozionavi nel ruolo più eccitante della legge
quello che non protegge
la parte del boia.
Imputato,
il dito più lungo della tua mano
è il medio
quello della mia
è l'indice,
eppure anche tu hai giudicato.
Hai assolto e hai condannato
al di sopra di me,
ma al di sopra di me,
per quello che hai fatto,
per come lo hai rinnovato,
il potere ti è grato.
Ascolta
una volta un giudice come me
giudicò chi gli aveva dettato la legge:
prima cambiarono il giudice
e subito dopo
la legge.
Oggi, un giudice come me,
lo chiede al potere se può giudicare.
Tu sei il potere.
Vuoi essere giudicato?
Vuoi essere assolto o condannato?

Appare subito chiaro, che il sogno come per una anticipazione, mostra all'impiegato un processo nel quale lui è imputato come bombarolo. Le caratteristiche del sogno mettono in scena anche la capacità di analisi del protagonista come funzione narrativa usata da De André per impostare un discorso intorno al ruolo che ogni pedina di un gioco di questo tipo assume, ovvero un gioco di potere dove ogni azione veicola una volontà e di conseguenza un potere. E' così che avviene un nuovo ribaltamento, il giudice funzionario del potere, mostra all'impiegato come con il suo gesto non fa che assumere su di sé il potere che vuole scardinare, poiché il potere è una proprietà interna all'atto, è la potenza e un atto violento che vuole rinnovare colpendo alla base la società, nei suoi valori, assume su di sé il potere di farlo. Affascinante il finale, in cui poiché si è all'interno di una situazione onirica e quindi ancora nel groviglio inconscio del protagonista, viene a delinearsi l'ambiguità di una posizione estrema e emarginante, che prevede ancora un bivio che l'impiegato dà a se stesso tra la propria “salvezza” e la propria “condanna”.


Canzone del padre

-Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi
solo i sogni che non fanno svegliare.-
-Sì, Vostro Onore, ma li voglio più grandi.-
-C'è lì un posto, lo ha lasciato tuo padre.
Non dovrai che restare sul ponte
e guardare le altre navi passare
le più piccole dirigile al fiume
le più grandi sanno già dove andare.-
Così son diventato mio padre
ucciso in un sogno precedente
il tribunale mi ha dato fiducia
assoluzione e delitto lo stesso movente.
E ora Berto, figlio della lavandaia,
compagno di scuola, preferisce imparare
a contare sulle antenne dei grilli
non usa mai bolle di sapone per giocare;
seppelliva sua madre in un cimitero di lavatrici
avvolta in un lenzuolo quasi come gli eroi;
si fermò un attimo per suggerire a dio
di continuare a farsi i fatti suoi
e scappò via con la paura di arrugginire
il giornale di ieri lo dà morto arrugginito,
i becchini ne raccolgono spesso
fra la gente che si lascia piovere addosso.
Ho investito il denaro e gli affetti
banca e famiglia danno rendite sicure,
con mia moglie si discute l'amore
ci sono distanze, non ci sono paure,
ma ogni notte lei mi si arrende più tardi
vengono uomini, ce n'è uno più magro,
ha una valigia e due passaporti,
lei ha gli occhi di una donna che pago.
Commissario io ti pago per questo,
lei ha gli occhi di una donna che è mia,
l'uomo magro ha le mani occupate,
una valigia di ciondoli, un foglio di via.
Non ha più la faccia del suo primo hashish
è il mio ultimo figlio, il meno voluto,
ha pochi stracci dove inciampare
non gli importa di alzarsi, neppure quando è caduto:
e i miei alibi prendono fuoco
il Guttuso ancora da autenticare
adesso le fiamme mi avvolgono il letto
questi i sogni che non fanno svegliare.
Vostro Onore, sei un figlio di troia,
mi sveglio ancora e mi sveglio sudato,
ora aspettami fuori dal sogno
ci vedremo davvero,
io ricomincio da capo.

Come per un improvviso tentativo di reimmersione, piuttosto che uscire dalla situazione onirica e ripiombarci nella realtà dei fatti della storia, De André ci spinge fino al fondo più oscuro del groviglio interiore dell'impiegato. La canzone del padre fa luce sulle paure, sugli elementi costitutivi e sulle immagini ossessive che dipingono una presunta vita futura, legata a quella realtà vissuta da piccolo borghese con il suo piccolo lavoro da impiegato. E' così che la voce interiore del giudice chiede “Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi solo i sogni che non fanno svegliare?”, ossia vuoi che la tua coscienza e con essa il tuo Ego, giunga alla verità, ai fatti di una vita da cui non ci si sveglia. L'avere occhi più grandi, significa certo essere più consapevoli, ma anche avere un ruolo maggiore, un potere maggiore, una autorità. L'autorità che sia del padre di educare i propri figli alle regole della società, ai suoi valori. L'autorità di un buon posto di lavoro, che perpetua le dinamiche su cui si basa una società, soprattutto dal punto di vista economico, da cui dipende spesso il resto. Così “le navi” sono tutto ciò su cui si ha un'influenza. Prendere il posto del padre, perpetuare una esperienza statica, all'interno dell'inconscio edipico “il tribunale mi ha dato fiducia assoluzione e delitto lo stesso movente”, ossia il delitto dell' “uccisione del padre” che rappresenta il potere mosso dal raggiungimento del suo ruolo e l'assoluzione per averlo ottenuto. Il parallelismo quindi tra l'autorità paterna e quella dello stato ha un determinato valore nello sviluppo del testo, il dilemma si muove da un ambito antropologico ad uno più strettamente storico e si aggrappa ad immagini legate al passato dell'impiegato e ad un eventuale futuro. L'illusione della realizzazione che si instaura su situazioni fatte di “alibi”, dati a se stesso per giustificare la meschinità dietro i rapporti che vengono evocati: Berto vecchio compagno di scuola, figura del ricordo che da un lato rappresenta l'emarginazione e il rifiuto degli schemi prestabiliti, dall'altro una bassa estrazione sociale che non ha vie d'uscita e ricade nella propria disfatta. Una moglie che ha la doppia sembianza metaforica di compagna e prostituta, come a dichiarare la malattia di una relazione coniugale basata sulla soddisfazione del reciproco interesse, così che agli occhi dell'impiegato lei si trasforma oppure forse la prostituta che frequenta gli appare più “moglie” della moglie stessa, tanto da affermare “lei ha gli occhi di una donna che è mia”, ma che appartiene al pappone di turno; descritto come un forestiero con “un foglio di via”, per metterlo in relazione alle strutture del potere statale che gestiscono le cose attraverso le leggi oltre che per colorare la bassezza dell'ambientazione. Infine il rapporto filiale, anch'esso destinato al fallimento dove il figlio appare un “reietto della vita”, abbandonato a se stesso “non gli importa di alzarsi neppure quando è caduto”.
Questi sogni realizzati dal giudice noumenico e satanico nella tentazione del potere concesso, vengono immediatamente rifiutati con una “bomba in testa” che “mette fuoco agli alibi”, alle giustificazioni ipocrite che il protagonista dà a se stesso per quella vita che ha potuto vivere in sogno. Alla fine del sogno la sua scelta non potrà essere altra che di rottura, distruttiva.

mercoledì 25 novembre 2009

Storia di un impiegato, n.2





La bomba in testa


...e io contavo i denti ai francobolli
dicevo "grazie a dio" "buon natale"
mi sentivo normale
eppure i miei trent'anni
erano pochi più dei loro
ma non importa adesso torno al lavoro.
Cantavano il disordine dei sogni
gli ingrati del benessere francese
e non davan l'idea
di denunciare uomini al balcone
di un solo maggio, di un unico paese,
e io la faccia usata dal buonsenso
ripeto "non vogliamoci del male"
e non mi sento normale
e mi sorprendo ancora
a misurarmi su di loro
e adesso è tardi, adesso torno al lavoro.
Rischiavano la strada e per un uomo
ci vuole pure un senso a sopportare
di poter sanguinare
e il senso non dev'essere rischiare
ma forse non voler più sopportare.
Chissà cosa si prova a liberare
la fiducia nelle proprie tentazioni,
allontanare gli intrusi
dalle nostre emozioni,
allontanarli in tempo
e prima di trovarti solo
con la paura di non tornare al lavoro.
Rischiare libertà strada per strada,
scordarsi le rotaie verso casa,
io ne valgo la pena,
per arrivare ad incontrar la gente
senza dovermi fingere innocente.
Mi sforzo di ripetermi con loro
e più l'idea va dì là del vetro
più mi lasciano indietro,
per il coraggio insieme
non so le regole del gioco
senza la mia paura mi fido poco.
Ormai sono in ritardo per gli amici
per l'odio potrei farcela da solo
illuminando al tritolo
chi ha la faccia e mostra solo il viso
sempre gradevole, sempre più impreciso.
E l'esplosivo spacca, taglia, fruga
tra gli ospiti di un ballo mascherato,
io mi sono invitato
a rilevar l'impronta
dietro ogni maschera che salta
e a non aver pietà per la mia prima volta.

Se questo è certamente un album politico, allo stesso tempo è certamente una delle più innovative forme di narrazione tentate attraverso la canzone, almeno nel panorama italiano. La Bomba in testa apre a ventaglio il dipanarsi dei pensieri dell'impiegato, in un altalenarsi di istintività, ossessione e repressione della propria volontà. Crea ampi scorci sui dubbi che attanagliano l'impiegato e allo stesso tempo ci trascina lungo la linea narrativa, portando avanti la storia. Subito viene presentato un elemento chiave della narrazione nel titolo: la bomba, inserito metaforicamente a significare una confusione di pensieri, ma anche rivelato come elemento attivo nell'intreccio al termine del testo della canzone. Lo stile narrativo di De André è tutto votato alla concisione, anche per i limiti strutturali della canzone, ma ne viene fuori una profondità di espressione difficilmente raggiungibile. Cosicché ad esempio con “Chissà cosa si prova a liberare la fiducia nelle proprie tentazioni, allontanare gli intrusi dalle nostre emozioni, allontanarli in tempo e prima di trovarti solo con la paura di non tornare al lavoro.”, delinea il quadro di un'interiorità complessa, affrontando temi di profondità e spessore, dove gli “intrusi delle emozioni” con un secco richiamo freudiano, presente in tutto l'album, non sono altro che le forze repressive del Super-ego, quelle assunzioni formali dell'interiorità che si sono sviluppate secondo l'educazione derivata dalla propria formazione, dalla società, dalla cultura. Il protagonista manifesta una coscienza della contraddizione tra i propri pensieri e l'aridità della sola “paura di perdere il lavoro”, continuando a “misurare” ciò di cui sempre più diviene consapevole a ciò che trova nei giovani contestatori. In questo modo il tema della contestazione, può raggiungere il valore più alto del proprio messaggio e del ruolo storico che ha avuto, perché è messo in scena il percorso che da una coscienza individuale parte fino a trasformarsi in collettività e all'inverso. Ma non è questo il solo tema dell'album, la storia continua e muta. L'impiegato non partecipa alla contestazione, ma “partecipa” alla reazione alla propria frustrazione, non assume nessuna coscienza collettiva, non diviene parte di un movimento ma resta chiuso nella propria individualità “Mi sforzo di ripetermi con loro e più l'idea va dì là del vetro più mi lasciano indietro, per il coraggio insieme non so le regole del gioco senza la mia paura mi fido poco. Ormai sono in ritardo per gli amici per l'odio potrei farcela da solo illuminando al tritolo chi ha la faccia e mostra solo il viso sempre gradevole, sempre più impreciso.”. Sta diventando appunto un bombarolo, alimentando il proprio odio con tutta l'ambiguità di un gesto masochistico, come se il sadismo porti con sé sempre una componente autolesionistica. La distruzione non è cristallizzata in una mera rivalsa, ma è già rigenerazione, perché manifesta il proprio lato creativo. Tutto ciò è possibile pensarlo in quanto quello che l'impiegato vuole far saltare in aria sono le ipocrisie fondanti la cultura stessa che lo ha cresciuto anch'egli finora ipocrita, la propria. Colta e straordinaria per l'utilizzo che De André ne fa, la metafora lunga delle maschere e del viso: per cui i disvalori della sopraffazione e della repressione, sono la “faccia” che i componenti della società “mascherano” come in un “ballo mascherato”, in questo c'è anche un sottile richiamo alla ripetitività dei gesti e delle situazioni in un rapporto di potere, dove le “maschere” sono gli illustri personaggi a cui i buoni valori sono collegati (es. Cristo e la Bontà). L' “impronta” della verità è lasciata dalle “facce” sulle “maschere” e il protagonista vuole “rilevare” e rivelare quell'impronta, facendo “saltare” le maschere. Da qui nasce la quarta canzone, che prosegue la metafora, nella quale viene mostrato l'uso ipocrita che si fa di ogni personaggio-maschera in una complessa costruzione di rapporti tra le varie celebrità-simbolo.


Al ballo mascherato delle celebrità

Cristo drogato da troppe sconfitte
cede alla complicità
di Nobel che gli espone la praticità
di un eventuale premio della bontà.
Maria ignorata da un Edipo ormai scaltro
mima una sua nostalgia di natività,
io con la mia bomba porto la novità,
la bomba che debutta in società,
al ballo mascherato della celebrità.
Dante alla porta di Paolo e Francesca
spia chi fa meglio di lui:
lì dietro si racconta un amore normale
ma lui saprà poi renderlo tanto geniale.
E il viaggio all'inferno ora fallo da solo
con l'ultima invidia lasciata là sotto un lenzuolo,
sorpresa sulla porta d'una felicità
la bomba ha risparmiato la normalità,
al ballo mascherato della celebrità.
La bomba non ha una natura gentile
ma spinta da imparzialità
sconvolge l'improbabile intimità
di un'apparente statua della Pietà.
Grimilde di Manhattan, statua della libertà,
adesso non ha più rivali la tua vanità
e il gioco dello specchio non si ripeterà
"sono più bella io o la statua della Pietà"
dopo il ballo mascherato della celebrità.
Nelson strappato al suo carnevale
rincorre la sua identità
e cerca la sua maschera, l'orgoglio, lo stile,
impegnati sempre a vincere e mai a morire.
Poi dalla feluca ormai a brandelli
tenta di estrarre il coniglio della sua Trafalgar
e nella sua agonia, sparsa di qua, di là,
implora una Sant'Elena anche in comproprietà,
al ballo mascherato della celebrità.
Mio padre pretende aspirina ed affetto
e inciampa nella sua autorità,
affida a una vestaglia il suo ultimo ruolo
ma lui esplode dopo, prima il suo decoro.
Mia madre si approva in frantumi di specchio,
dovrebbe accettare la bomba con serenità,
il martirio è il suo mestiere, la sua vanità,
ma ora accetta di morire soltanto a metà,
la sua parte ancora viva le fa tanta pietà,
al ballo mascherato della celebrità.
Qualcuno ha lasciato la luna nel bagno
accesa soltanto a metà
quel poco che mi basta per contare i caduti,
stupirmi della loro fragilità,
e adesso puoi togliermi i piedi dal collo
amico che mi hai insegnato il "come si fa"
se no ti porto indietro di qualche minuto
ti metto a conversare, ti ci metto seduto
tra Nelson e la statua della Pietà,
al ballo mascherato della celebrità.

In un ripetersi di nomi che fondano gran parte della cultura occidentale, si assiste ad un vero e proprio, ma complesso, ribaltamento dei valori che ogni personaggio simboleggia. Un ribaltamento che ha più la forma di una sconfessione e di uno svelamento. Cosicché il Cristo della bontà viene descritto con accenti masochistici e il sacrificio assume valore solo in relazione alla gloria/fama che ne deriva, ricadendo così nei meccanismi di vittimismo buonista attraverso la relazione con il bisogno per la società contemporanea di un premio alla bontà (pace) indetto da Nobel (più “pratico” di un intero Nuovo Testamento?!). La madonna viene descritta calcando l'accento sulla morbosità del rapporto materno rapportato all'Edipo freudiano, sembra quasi vittima di una “gravidanza isterica” cercando drammaticamente il suo figlio\Edipo che si nega poiché “ormai scaltro”, ossia consapevole del suo essere figlio e amante. Così vengono minati i valori della famiglia e della solidarietà sociale. Dante, simbolo della cultura e dell'arte, in realtà è chi incapace di vivere un amore lo spia e lo racconta straordinario, ma in verità era un “amore normale”, diviene così manifesta la menzogna prodotta in risposta alle proprie debolezze. Nelle successive due strofe, De André inserisce una parola chiave per la sua poetica: “pietà” (“nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l'amore”, da Testamento di Tito). Sembra dire che la Libertà, che simboleggiata dalla Statua della Libertà in America, pare essere più che altro sinonimo di liberismo, dopo la bomba che smaschera i valori, resterà la sola, svelando quindi una società fondata sul proprio tornaconto e non sulla pietà umana, simboleggiata dalla “pietà” michelangiolesca: sublimazione di un amore materno verso il proprio figlio morto, che si fa amore universale verso il proprio Dio morto resuscitato per la salvezza, espressione di un sentimento complesso di difficile spiegazione. Con la figura di Nelson, pare si voglia colpire la vanagloria di tipo patriottico che è nascosta dietro ai personaggi storici e al loro ricordo e l'opposizione che nasce tra l'individuo e le necessità di una collettività quando sono in gioco falsi valori: “impegnati sempre a vincere ma mai a morire”, così che la vittoria di Trafalgar in cui Nelson morì sarebbe stata certo scambiata con un sconfitta e la prigionia a Sant'Elena dall'ammiraglio. Nelle successive strofe si passa ad una descrizione più intimista, entrano in gioco i genitori dell'impiegato, anche loro come gli altri personaggi veicolano valori e rappresentano l'educazione, l'autorità, il Super-ego. Il padre che pretende, come per debito di discendenza, le cure materiali e l'affetto indipendentemente da ciò che significa il suo essere padre, la piccola e meschina realtà da perpetuare che porta in dono al figlio insieme ad un “decoro” che maschera in realtà remissività e rassegnazione. Così come la madre che rincorre il modello femminile imposto, cercando gratificazione nel conformismo legato all'esteriorità, finendo per avere pietà della parte di sé soffocata che è rimasta “viva” dopo l'esplosione; la vanità era il suo martirio, la sua morte che la rendeva una bella vittima. Da qui in poi entra in scena l'io del protagonista, che sembra dichiarare di stare sognando o di essere in una situazione tra la veglia e il sogno, attraverso immagini accostate come la “luna” e il “bagno” in un tipico meccanismo onirico, ipotesi presumibile per il fatto che la canzone successiva si intitola Sogno numero due. Il protagonista dichiara di sentirsi spinto, sente la pressione nel suo agire (“e adesso puoi togliermi i piedi dal collo amico che mi hai insegnato il "come si fa"), ma è probabilmente una pressione legata alla totalità degli eventi, dove l'”amico” indica certo anche il movimento di contestazione, come era stato in La bomba in testa. In questo passaggio si può appunto notare come qualsiasi forma di autorità, compresa quella anti-autorità, può essere messa tra le maschere, proprio tra “Nelson” simbolo di un potere militare e politico e la “pietà” simbolo della solidarietà umana (per questo “amico”) che però viene colpita anch'essa da una bomba che “non ha una natura gentile” ed è “spinta da imparzialità”.
Si conclude così la prima canzone-viaggio nel mondo onirico dell'impiegato, che elabora inconsciamente il mutamento della sua coscienza verso quella che veniva chiamata “coscienza politica”, ma che è immersa necessariamente nel magma dell'interiorità dell'individuo.

martedì 24 novembre 2009

Storia di un impiegato, De André (1973)



























Provo un tentativo di interpretazione dei testi, di uno dei concept album di Fabrizio De Andrè, con la convinzione di trovarmi di fronte ad una delle opere più rappresentative del decennio 73-83, ovvero di quelli che furono chiamati "anni di piombo".
Scriverò un post ogni due canzoni massimo, per agevolare la lettura.

L'album pare sia stato rinnegato dallo stesso autore, in quanto troppo dichiaratamente politico, credo però che a distanza di anni la chiara professione politica sia stata un elemento chiave per narrare con spessore e profondità il periodo, aggiungendo un valore di testimonianza e partecipazione.



Introduzione


"Lottavano così come si gioca ”, ovvero riconoscevano in se stessi una forza che spingeva tutti e che non era semplicemente assunta, ma che piuttosto sembrava una propensione, che quindi prendeva a colorarsi di una creatività, di un'estetica, profonda. Per questo accostabile al gioco, per la sua energia di immaginazione, per la sua capacità visionaria di trasformare la realtà.
Questo è possibile leggere nel solo primo verso di Storia di un impiegato (1973), certo intuendo il contesto che poi si verrà precisando con il secondo verso: “i cuccioli del maggio era normale”. Eppure al termine di Introduzione, prima traccia del concept album, è già tutto connotato diversamente. Fabrizio De André ha sì tracciato con una sola pennellata tutto il paesaggio sessantottesco, ma non solo, ha fatto molto altro, ha immediatamente immerso nella cattiva coscienza del protagonista, che poi si capirà essere un impiegato, l'ascoltatore.

Lottavano così come si gioca
i cuccioli del maggio era normale
loro avevano il tempo anche per la galera
ad aspettarli fuori rimaneva
la stessa rabbia la stessa primavera

Improvvisamente, quindi, veniamo calati nel punto di vista dell'impiegato, al quale con un gioco finissimo vengono messe in bocca o in testa le parole che perfettamente potrebbero descrivere il movimento sessantottesco, ma che dette o pensate con una accezione negativa vogliono più che altro addurre una giustificazione alla remissività del protagonista.
Lui non ritroverebbe la “primavera” della vita, né la stessa forza interiore d'istintività propria della gioventù, se fosse portato in carcere come eversivo, quindi resta a guardare. Ancora un sottilissimo gioco narrativo, con l'inserimento di “rabbia” sia si connota positivamente come “forza di protesta, che parte da una istintività propria della gioventù” quella dei "cuccioli" del maggio, sia si descrive la paura-consapevolezza dell'impiegato della propria inettitudine che è come un vuoto morale.


Canzone del maggio

Anche se il nostro maggio
ha fatto a meno del vostro coraggio
se la paura di guardare
vi ha fatto chinare il mento
se il fuoco ha risparmiato
le vostre millecento
anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.
E se vi siete detti
non sta succedendo niente,
le fabbriche riapriranno,
arresteranno qualche studente
convinti che fosse un gioco
a cui avremmo giocato poco
provate pure a credervi assolti
siete lo stesso coinvolti.
Anche se avete chiuso
le vostre porte sul nostro muso
la notte che le "pantere"
ci mordevano il sedere
lasciandoci in buonafede
massacrare sui marciapiede
anche se ora ve ne fregate,
voi quella notte voi c'eravate.
E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate
senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone
le "verità" della televisione
anche se allora vi siete assolti
siete lo stesso coinvolti.
E se credete ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti..

Grado zero della narrazione. Scompare il punto di vista dell'impiegato, cosicché la canzone possa fare da connettore a più livelli: si potrebbe ritenerla l'oggetto fisico, ovvero la canzone effettiva che si cantava per le strade durante quel periodo, che simboleggia tutto l'imporsi delle vicende agli occhi dell'impiegato con la loro pregnanza e evidenza violenta. Unisce quindi sintatticamente Introduzione a La bomba in testa (terza traccia dell'albuma) come una congiunzione (elemento fisico, significante) e anche tematicamente, in La bomba in testa infatti si ritorna all'interno del punto di vista dell'impiegato.
Il canto porta l'evidenza dell'ipocrisia piccolo borghese con una violenza espressiva rivolta direttamente alle orecchie di ascolta, allegoricamente noi, ma letteralmente l'impiegato.
Il rapporto tra "l'essere assolto" e "l'essere coinvolto" si diramerà in tutto l'album, come una profezia da cui non si ha la possibilità di liberarsi, ma che richiedendo una risposta trasforma la reazione in ossessione, introducendo un incredibile spessore psicologico nell'intero discorso.

P.S. A Caddu che parlando di De André, mi ha fatto venir voglia di scriverne.

martedì 17 novembre 2009

Recensione: LO SPAZIO BIANCO


Ormai è passata qualche settimana da quando ho visto Lo spazio bianco, eppure le emozioni che mi ha suscitato questa pellicola sono vivide e persistenti come le immagini che la compongono. Non voglio raccontare di cosa parla il film ma solo dare un parere, uno scorcio di cosa il cinema può; l'intimità che Francesca Comencini riesce a trasmettere allo spettatore che guarda scorrere davanti lo schermo la storia personalissima di una donna alle prese con una gravidanza inaspettata e pergiunta prematura è impareggiabile. Ci si sente quasi degli spettatori indiscreti, imbarazzati davanti alla sincerità che esprime ogni respiro della protagonista, ci verrebbe da chiedere scusa allo schermo e ringraziare defilandoci. Non solo le sensazioni fanno di questo film, a mio avviso un bel film, lo è anche perchè è sorretto dalla attrice italiana contemporanea esageratamente migliore di ogni altra (Margherita Buy) e accompagnato da una elegante fotografia di Luca Bigazzi; la colonna sonora risulta raffinata e azzaccatissima con brani di Nina Simone, Ella Fitzgerald, Lali Puna e Cat Power solo per citarne alcuni, ma anche Blondie e molti altri, insomma un gran bel contorno. Detto questo non voglio aggingere altra carne al fuoco, ma solo consigliare a tutti una buona visione e di lasciarvi trasportare dentro la vita di questa eroina moderna, parleremo poi, qui, dei pareri specifici sul film per chi lo vorrà...

martedì 3 novembre 2009

Rubrica: Edvard Munch, Pubertà



Appendo alla parete un'immagine che difficilmente riuscirò a slegare dall'influenza che ha nel caratterizzare il resto; in questo caso la pagina, il blu dello sfondo, il colore del testo, lo schermo, il mio portatile, l'ora del giorno o della notte...
Non è che in questo momento mi senta molto propenso a confidenze, così forse il tono è piuttosto un'inclinazione suggerita, una suggestione, che un imbonimento. Un po' nello stesso modo in cui l'intimità del quadro di Munch è già, dal momento in cui nasce alla sensibilità, accompagnata dal suo negativo, da una degradazione. Se si volesse descrivere Pubertà in ciò che raffigura si parlerebbe di un nudo, in particolare di un'adolescente nuda seduta su un letto spoglio, all'interno di una stanza altrettanto spoglia e si potrebbe dire, non erroneamente, che l'insieme di queste caratteristiche nella loro osmosi produce la sensazione di degrado e di nausea nell'immagine, come nel tentativo di mostrare l'interiorità della ragazza, di definirla. Allo stesso modo ad aumentare quest'impressione, oltre al tratto caratteristico di Munch e al suo cromatismo, contribuisce la densità iconica che l'ombra della figura femminile ha rispetto al resto degli elementi. Questa ombra letteralmente "incombe" su di lei, presagio di morte forse, certamente della sua presenza fatalistica o metaforica, ma anche dell'esistenza esasperata di una presenza. Spesso nei quadri di Munch le presenze, di qualsiasi natura esse siano, de-formano l'ambiente che le contiene attraverso tutta la loro esistenza, spesso aggiungendo sostanza alla loro figura per mostrare uno stato interiore. L'interiorità altera la realtà e Munch la dipinge.
Ciò che però mi ha portato a scegliere in particolare Pubertà, non è il fatto di preferirla per gusto ad altri suoi dipinti, piuttosto è una riflessione intorno allo sguardo, che credo mi abbia aiutato a capire di più questo artista. A seconda del quadro di Munch che si ha sotto gli occhi, è più o meno semplice affermare se sia l'interiorità dei personaggi ritratti o quella del pittore ad alterare la realtà in cui i personaggi sono immersi. Ovvero se sia una interpretazione o una visione di Munch a far nascere l'immagine.
Accostando Pubertà ad altri nudi, come quelli di Tiziano, di Goya o di Manet, si potrebbe quasi affermare che il soggetto del dipinto si sposti dalla figura rappresentata all'intenzionalità della rappresentazione o se si vuole dello sguardo. In Tiziano, in Goya o Manet, sebbene in modo molto diverso, la rappresentazione di nudi pare coniugare l'intenzionalità dello sguardo dell'artista che propriamente "sveste" la realtà svelando la costante brama del suo sguardo che deve raggiungere sempre più a fondo l'immagine che ritrae per poterla rappresentare, alla figura rappresentata, che essendo un nudo simboleggia maliziosamente tale sguardo. L'artista rinnova e ci mostra il nostro nuovo modo di guardare, che è un tentativo costante di svelare e nasconde una bramosia conoscitiva con forti accenti sessuali. Ma Munch in Pubertà fa un passo ulteriore, non è più una giovane donna piacente a essere ritratta nella sua floridezza, ma un'adolescente o forse ancor più la sua pubertà, ossia il periodo di trasformazione del suo corpo e la trasformazione interiore che ne consegue. E' il gesto ad avere un valore ancor più rivelatore rispetto ai suoi predecessori, visto che le mani giunte a nascondere il proprio sesso e la postura complessiva della ragazza esprimono la sua consapevolezza e il suo sguardo paura, perplessità e fragilità. Di conseguenza la malizia simbolica del nudo, non sta più solo a simboleggiare l'intenzionalità possessiva dello sguardo dell'artista (così come dello spettatore/società) che rimane presente nella sua forza, ma anche la consapevolezza del soggetto ritratto di poter essere oggetto di desiderio e possesso, di star subendo una trasformazione che assume su di sé la propria ambiguità. E' così che a divenire soggetto del dipinto è propriamente la reciprocità di sguardi tra l'artista/spettatore e la ragazza pubescente che perpetuamente continua a realizzarsi ad ogni visione del quadro, dimostrando l'incredibile novità di Munch.
Seguendo questa interpretazione è interessante notare come aumenti la drammaticità del quadro inserendovi la lettura dei temi topici di Munch: la morte, l'angoscia, il dolore.
L'artista traducendo in opera la reciprocità degli sguardi tra lo spettatore e la figura rappresentata può enfatizzare la drammatica dicotomia di Eros e Thantos, a lui cara, dove l'erotismo incastrato nell'intenzionalità dello sguardo dello spettatore si scontra con la consapevolezza di un mutamento del corpo, che più che richiamare la nascita è già annuncio di caducità, di transitorietà, il tempo agisce sul corpo. Il sentimento di morte è evidente per lo spettatore che lo vive in relazione all'erotismo evocato ed è solo un presagio sul viso emaciato della pubescente, un'ombra che incombe, minacciosa per lo spettatore stesso nel suo protendersi. La coscienza della morte, l'angoscia Kirkegaardiana, corre così sullo sguardo dello spettatore verso la sua interiorità, come dall'interiorità di Munch aveva portato a trasformare quell'immagine nel suo dipinto.

giovedì 20 agosto 2009

Settimo lancio...





L'indispensabile ormai è riconoscere una sensibilità che credo sia stata oggetto di mistificazioni, a causa di sovrastrutture culturali e cattiva coscienza, anche nella più onesta e sofferta ricerca dell'autenticità. Questa sensibilità che è propria degli esseri umani e che pascaleanamente penso possa considerarsi il vertice del percorso mentale (uso questo aggettivo evidenziandolo e non "spirituale", perché confonderebbe) di un essere umano, è un sentimento teso al sacro, una sorta credo di espressione profonda e necessariamente impensata di un illimitato, che ricade anche in una dimensione assolutamente sentimentale, che è qualcosa di diverso da una dimensione puramente emotiva e da una sensibile, perché è origine e movente dell'opera, non conseguenza. Quando parlo di opera, forse dovrei parlare di atto sia in potenza che in fatto, ma voglio aprire questo termine a tutto il ventaglio di significati che lo caratterizza, finanche a "opera" come oggetto d'arte.
Per dare risonanza a questo mio discorso, così preciso nel mio tentativo di riconoscerlo tale, eppure così vago da continuare in un certo senso a sfuggirmi, offro questa:


Incoraggiamento

Eco del cielo! cuore sacro! perché,
Perché rimani muto tra i mortali?
E riposi nel sonno, da uomini senza Dei
Bandito ogni giorno nella notte?

Non fiorisce, come un tempo, per te la madre, la terra?
Non fioriscono nel chiaro etere le stelle?
E non vige ovunque la legge dello
Spirito e dell'amore, ora e per sempre?

Tu solo no, non più! ma ti ammoniscono i Celesti,
E quieto ondeggia, plasmando, come un campo spoglio,
Il respiro della natura su di noi, che
Pervaso dall'anima tutto rasserena.

O speranza! assai presto i boschi non
Canteranno soli la lode degli Dei, perché verrà il tempo
Quando dalla bocca degli uomini
L'anima, l'anima divina, si annuncerà di nuovo.

E i nostri giorni saranno ancora come fiori,
E lui, il quieto sole celeste, dispensato in alternanza,
Vedrà la propria immagine e
Lieta nei lieti si riconoscerà la luce,

E amando con più forza, alleato dei mortali,
Vivrà l'Elemento e con ricchezza,
Nella gratitudine dei devoti figli, la forza
Della terra, infinita, si dispiegherà.

Ed egli che tacito impera, preparando
Il futuro ignoto, il Dio, lo spirito
Nella parola umana, nel giorno magnifico
Con nomi, come un tempo, tornerà a chiamarsi.

(Friedrich Holderlin, Incoraggiamento, prima stesura)



Non va confusa, a mio avviso, questa Ode, con un rinnovato annuncio del Salvatore in senso cristiano. E' evidente come Holderlin vada alla radice del linguaggio religioso, in questo testo c'è richiamo sia alla tradizione greca, che a quella ebraica, che a quella orientale, o animistica (si pensi al ruolo della natura).
Più in profondità, quindi, c'è un diffuso rifluire di un canto originario, pre-culturale, fondativo. Nello stesso senso e non in uno parziale o specifico di una determinata-determinabile confessione, vuole essere il mio intervento.

ex-titolum:...in eterno ritorno

domenica 5 luglio 2009

Sesto lancio...


Ricordo di una lettura. Rilettura. Una lettura che sembrava un sigillo ultimo, il sigillo si ripete. In questo caso fonde è di cera cremisi e ha un indistinguibile marchio, quello dell'autore. Allora più che fondere il cremisi, ardeva di rosso pulsante. Cera cremisi, fonderla, un foglio, spedito...


a challange to the dark

shot in the eye
shot in the brain
shot in the ass
shot like a flower in the dance

amazing how death wins hands down
amazing how much credence is given to idiot forms of
life

amazing how laughter has been drowned out
amazing how viciousness is such a costant

i must soon declare my own war on their war
i must hold to my last piece of ground
i must protect the small space i have made that has
allowed me life

my life not their death
my death not their death

this place, this time, now
i vow to the sun
that i will laugh the good laugh one again
in the perfect place of me
forever.

their death not my life.

(Charles Bukowski, Betting on the Muse: Poems & Stories)



una sfida alle tenebre

colpito in un occhio
colpito nel cervello
colpito nel culo
colpito come un fiore nella danza

meraviglioso come la morte vince a mani basse
meraviglioso come prestiamo fede a stupide forme di vita

meraviglioso come il riso sia stato soffocato
meraviglioso come la malvagità sia così una costante

devo presto dichiarare la mia propria guerra alla loro guerra
devo difendere il mio ultimo pezzo di terra
devo proteggere il piccolo spazio che mi sono fatto e che mi ha
permesso di vivere

la mia vita non la loro morte
la mia morte non la loro morte

in questo posto, in questo tempo, ora
faccio voto al sole
che ancora una volta riderò di cuore
nel mio posto perfetto
per sempre.

la loro morte non la mia vita.



ex titolum:...au bout de la nuit

venerdì 5 giugno 2009

Antichrist di Lars Von Trier







"Quando faccio un film il primo che voglio provocare è me stesso", questa è una delle risposte date da Lars von Trier all'insinuazione-critica piuttosto condivisa sul fatto che generalmente i suoi film sono provocatori, spesso specificando più incisivamente con un "sterili provocazioni". La risposta del regista appare quanto mai interessante, sopratutto se si pone l'attenzione sul suo carattere di testimonianza di poetica più che su quello di controbattuta in uno scambio di pseudo-opinioni. Provocare se stessi attraverso l'atto creativo e inoltre vedersi provocati dalla propria opera filmica compiuta. E' come se Von Trier ci stesse dicendo che il suo processo creativo, ma anche più semplicemente come direbbe lui il suo modo di lavorare, che è noto essere complesso e rigoroso ai limiti dell'ossessività, tenda alla costante ricerca di elementi di cui egli non ha possesso, o comunque piena coscienza, tanto da creare un distacco tra l'opera e l'autore. Si potrebbe affermare che è una caratteristica comune del fare artistico, ma qui si tratta di assumerlo come principio della propria poetica: è l'autore che teorizza una "maniera" di agire ad arte, poiesis, affinché il proprio prodotto si estranei a tal punto dall'autore da "provocarlo", ossia da porlo in uno stato di problematicità, dubbio, mutamento.
Nel caso di Antichrist, tale interpretazione è più direttamente evidente se si prendono in considerazione le successive dichiarazioni di Von Trier che spiegano come il girare questo film sia valso da terapia psicanalitica per il regista, che aveva passato gli ultimi anni in analisi per superare la depressione. Ma ci dà il via per una lettura particolare anche del film in sé.
Cominciamo da un interrogativo, cosa indica il titolo Antichrist? A stare a quanto dichiarato dal regista, in parte il titolo è stato un richiamo al noto testo di Nietzsche, che è propriamente un saggio di critica al cristianesimo, tesi principale del saggio è la contraddizione insita nella dottrina cristiana che si fonda su una filosofia della "colpa" e su una professione della "debolezza" opponendosi al principale istinto naturale umano dell'autoconservazione. Il film però non fa accenni al cristianesimo, se non molto indirettamente attraverso alcuni elementi della narrazione in cui si parla della persecuzione delle streghe nel sedicesimo secolo, né si può trovare un qualche parallelismo con alcuni temi dell'analisi nietzscheana se non per antitesi: in sostanza gli istinti naturali che caratterizzano l'uomo e gli animali non si fondano su un principio di autoconservazione per Von Trier, ma semmai su uno di sopraffazione, che nell'uomo si accosta ad un elemento coscienziale-razionale che porta anche, ma non solo, a stati di "senso della colpa", ossia ad un prodotto di quello che si può definire senso morale. Tuttavia alcuni elementi del film sono di chiaro carattere biblico: il rifugio nel bosco dove i due protagonisti vivranno per la maggior parte del film è in un luogo chiamato Eden; non vengono mai pronunciati i nomi dei due come a suggerire una universalizzazione di ognuno a simboleggiare il genere maschile e il femminile (Adamo ed Eva? forse solo per il richiamo al carattere-simbolo di progenitori); l'uso di una diffusa simbologia, oltre che i temi chiave della nascita e della morte.
In secondo luogo se si volesse accostare la descrizione di Anticrsito ad uno dei personaggi si verrebbe a caratterizzarli in modo eccessivo, sminuendo il ruolo degli altri. Appare più interessante porsi in una prospettiva per cui ognuno di essi concorre a sviluppare l'idea-figura dell’Anticristo, finanche il bambino "suicida" che è spinto appunto dalla sua innocenza verso la morte e che si contrappone ad un Cristo-bambino della nascita "eterna". L’approccio assistenziale, che il protagonista maschile (interpretato da Willem Dafoe) ha verso la moglie (Charlotte Gainsbourg), le sue convinzioni razionalistiche, essendo uno psicanalista, e alcuni dei commenti di lei, non fanno che evidenziare una visione logocentrica del mondo, tale per cui ogni allontanamento da una "normalità", sancita dalla società umana (occidentale) secondo un necessaria regolamentazione morale, è una "MALattia" (la radice "male", ha più valore in tale contesto). E mostra più in profondità la morbosità dell’approccio razionalistico, che coniuga tensione al dominio (Adorno) e rifiuto della creaturalità, della materia in quanto carne; tanto più che essendo uno psicanalista, non ha l’approccio puramente positivistico di rifiuto verso l’interiorità, ma vive “professionalmente” la consapevolezza della psiche umana. Caratteristiche che lo porteranno verso l’esperienza di una ineluttabile perdita di controllo (dominio), che avviene come fosse una trasformazione, un percorso rigenerativo fondato sul sentimento-tema della paura. Il suo percorso verso l’Anticristo è quello della perdita del Sé verso una animalità di eco mitica: il finale richiama per opposizione la salita al Golgota, ma anche il Tabor della trasfigurazione di Cristo; mentre per affinità, forse propriamente una citazione, il finale rappresenta il compimento del rito sabbatico che richiamandosi ai riti bacchici, dove il dio Dioniso (che per la filologia classica è ricordato anche nella forma di bambino, ed è accostato spesso alla figura del Cristo) compariva per essere attaccato dalle baccanti, mostra una schiera di donne, nel film anime, che rincorrono il dio, nel film l’uomo (ma anche forse il Satana dei riti sabbatici).
La componente mitica, ossia quella che non solo allegorizza gli elementi narrativi come la natura, ma che inoltre riconduce ad una visione di una realtà sconosciuta, non dominabile, che racchiude in sé dei parossismi di senso che restano non svelabili, permette un accostamento del film alle narrazioni epiche classiche o meglio a quelle speciali narrazioni epiche che sono i testi sacri.
Questa componente preponderante è una delle possibili interpretazioni del comportamento del soggetto-natura: gli animali oltre che compiere atti inusuali, ad un certo punto parlano, usando una linguaggio sentenzioso e sibillino, oracoli di un mondo ancora dominato dalle forze naturali, si dichiarano apertamente e attraverso questo punto di visto perdono la venatura grottesca che una scena come quella di una volpe automutilata che annuncia: “Il caos regna!” come una rivelazione minacciosa, poteva avere. Altra possibile interpretazione è quella che indica come allucinazioni di lui, l’unico a vedere gli animali comportarsi in questi strani modi, queste manifestazioni, ricalcando sull’aspetto psicologico, che però limiterebbe il film ad un horror-psicologico, togliendone il fascino allegorico e metafisico.
Di natura certamente psicologica, tant’è che i suoi comportamenti ricalcano gli stadi di passaggio da un disturbo dell’umore a un disturbo della personalità, sono i comportamenti della protagonista femminile. Così come posso assumere simbologia psicanalitica alcuni elementi: la casa come luogo dell’io, il bosco come brulicante Es, le azioni e le reazioni di allontanamento dal Es come Super-io. Riproponendo anche un parallelismo con l’epos classica e i suoi miti, si potrebbe azzardare la denominazione del suo percorso di svelamento del proprio inconscio, come un “nostos”, un viaggio di ritorno, nel quale da dover abbandonare è la zavorra di un passato di morte, la morte del figlio, che è anche un passato di colpa, il fatto di non essere stata talmente madre da salvarlo, rivelando così a se stessa la propria naturalità che appunto è di natura matrigna, come lo è la Natura che circonda i personaggi. Il male è fondativo della vita e la protagonista spinta a tornare a rivelarselo dal marito: ogni gioco psicanalitico la porta ad affrontare le sue paure e ad immedesimarsi con ciò che esse comportano: la violenza; la protagonista appunto finisce per maturare un disturbo, che è immedesimazione con il male, ma non nel senso in cui ella sceglie il male, ma nel senso in cui ella lo compie, questo è il suo aspetto da Anticristo, esattamente come a compierlo sono gli elementi della natura, in un ciclo costante di sopraffazione e rinascita. Tanto che sarà vittima proprio di tale ciclo, sarà il marito, dopo averla uccisa, a compiere lo stadio finale del nostos, un ritorno al luogo di un infanzia mitica, l’infanzia naturale del figlio che si sentiva attratto da quella Natura fascinosa e avvolgente. Tanto più che nella scena finale egli non ha affatto l'espressione di una colpevolezza, ma diversamente un'innocente ferinità, come quella degli occhi di un qualsiasi animale.
Il percorso e processo è compiuto e si può anche ritornare al collegamento iniziale con la poetica di Lars Von Trier: proprio come un “nostos”, il percorso dell’atto creativo di Von Trier è quello di un tentativo di recuperare attraverso l’opera artistica l’esperienza formativa che ha portato al suo compimento, non più attraverso il fare poietico dell’artista, ma attraverso l’assistere dinamico e rigenerativo alla propria opera.

P.S. E' un film su cui si avrebbe molto altro da dire. Passibile di molte interpretazioni, può aprire a vari temi e discussioni.
Voglio solo far notare in più che Lars Von Trier lo dedica ad uno dei registi più amati da lui e da noi del blog, Andrei Tarkovski, anche per questo è stata scelta quella foto per il post, dove si nota come Von Trier per vitalizzare la natura abbia scelto un'ambientazione che richiama molto quella di Lo Specchio, il film più intimo del grande cineasta russo che parla della propria infanzia, a cui come per un parallelismo extra-diegetico si ricollega la nostra interpretazione in chiave di un "ritorno al luogo di una infanzia mitica" di Antichrist.

mercoledì 8 aprile 2009

Il richiamo di Lighea...La risposta di Zingaretti

Le mani si muovono, ipnotiche disegnano cerchi, fendendo il buio con la rude eleganza di ampi gesti. Tutto un corpo al servizio del racconto. Luca Zingaretti è un prestigiatore, non ho dubbi, calca un metro quadro di palcoscenico costretto dalla staticità di un leggìo, ma è come se lo possedesse per intero. Calamita lo spettatore non c’è che da togliersi il cappello.
L’attore non è che un veicolo e più è bravo, più sa farsi modestamente da parte, sciogliendosi, lasciandosi possedere dal personaggio, o dai personaggi come nel caso di una lettura. Una voce e un corpo concreto si materializzano per personalità che esistono solo sulla pagina.
Con lo spettacolo La Sirena, abbiamo l’occasione di tornare bambini. Bramosi ed attenti, è così che ci vuole il buon istrione, per permetterci di scivolare in una favola, che come nelle migliori tradizioni non ha nulla di infantile, all’infuori del gusto per il magnifico. Tomasi di Lampedusa ritrova l’occasione per ricordare malinconicamente la sua terra, una Sicilia incantata ed ipnotica raccontata nostalgicamente da chi vi è nato e vi ha educato i sensi, che a distanza di decenni non dimenticano la prepotenza archetipica dei sapori e profumi di quella premurosa e carnale madre.
Il racconto Lighea, fu l’ultimo scritto dall’autore, pochi mesi prima di morire per malattia; può essere visto, dunque, come una estrema dichiarazione della propria visione del mondo, il che giustifica anche un ritorno alla giovinezza, al ricordo dell’età dell’oro.
La storia viene costruita su due livelli di narrazione, l’uno a fare da cornice all’altro. Il narratore è un giovane e distinto giornalista, ultimo discendente dei Corbera di Salina. Un uomo azzimato e tutto proteso alla conquista anche simultanea di più “tote”, che ovviamente scoprendo la sua natura da conquistatore lo hanno ridotto ad una prostrazione misantropica, dovuta alle ferite al proprio fragile ego maschile.
Siamo nell’urbanissima e composta Torino del 1938, lo scenario è un pigro e decadente caffè di via Po, definito a più riprese “Erebo spettrale” o “Ade popolato di larve”, un non luogo, dove ognuno sosta convinto di rimanere nella sua solinga tranquillità. Qui il redattore, viene affascinato da un avventore abituale, che sin dall’inizio è presentato come strano, sporco e dalle poco ortodosse abitudini, inavvicinabile nella sua assorta contemplazione di riviste archeologiche. Un vecchio intabarrato, sgualcito, elegante nel suo genere, ma ormai logoro dal tempo come il cappotto che indossa, capace di dimostrare umanità solo dinnanzi alla beffarda bellezza di statue arcaiche (non posso evitare di pensare a Jules e Jim!). Con il tempo, serata dopo serata, il protagonista prende informazioni, scoprendo che quell’ometto grifagno in realtà è un notabile della città, uno stimato grecista, famoso in tutte le università del continente. La curiosità, per i suoi modi bruschi lo porterà ad avvicinarsi e a scoprirlo suo conterraneo. Da questo amore comune nascerà una amicizia, scandita a ritmo di iniziazione sensuale; come in un crescendo veniamo trascinati sempre più a fondo, perdendoci negli abissi, rimanendo quasi senz’aria, per scoprire le origini della visione del mondo del misantropo professore... Colui che non può più amare niente di umano, nessun sentimento, nessuna sensazione, poichè li ha conosciuti allo stato puro, incontaminati, prepotenti, di divina e cruda ascendenza. Come sopravvivere ad un mondo sottotono, quando si conoscono degli accordi tanto suggestivi? Forse semplicemente ci si lascia vivere, aspettando con ansia il richiamo della perduta Sirena.
“Mi voltai e la vidi […] il volto liscio di una sedicenne emergeva dal mare. […] Sono Lighea, sono figlia di Calliope. […] Mi piaci, prendimi [...] Il maggior sortilegio di Lighea è proprio quello operato dal suono della sua voce: un po’ gutturale, velata, risonante di armonici innumerevoli. […] Il suo parlare era di un’immediatezza potente che ho ritrovato soltanto in pochi grandi poeti.”
La storia procede fino all’epilogo in cui, l’Allora e il Qui si ritrovano, si toccano e il cerchio ancora una volta si chiude. Come nel mito tutto torna in perfetto ed Armonico equilibrio.

“Ricorda, quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi: io sarò sempre lì e la tua sete di sonno sarà saziata”

P.S. Zingaretti conclude lo spettacolo con un regalo... “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”...A voi ogni possibile parallelismo!

giovedì 2 aprile 2009

Il confine FortApasc

E’ la sera del 23 settembre 1985, una canzone di Vasco Rossi viaggia sull’autoradio di una scassatissima Citroen Mehari verde pisello. Dall’alto, non le stacchiamo gli occhi di dosso, la dobbiamo seguire, è lui! Le vie tortuose di Napoli sono illuminate dall’arancione dei lampioni e dal bianco di una grande luna.
Così Marco Risi apre e chiude il cerchio del film FortApasc e lascia che sia la voce citofonica e scanzonata di Libero di Rienzo ad accompagnare lo spettatore-lettore nel racconto dell’ultima notte di vita di un ragazzo. Libero non smentisce il suo nome in una delle interpretazioni più oneste e pacate che abbia mai fatto. Per tutti i 108 minuti rivivifica il libero Giancarlo Siani, giornalista ventiseienne del Mattino di Napoli, morto ammazzato dalla camorra, per aver squarciato il velo d’omertà sulle connivenze tra politica e mafia nella Torre Annunziata degli anni ottanta.
Il film risulta veloce e dinamico, volutamente poco organico come il pensiero di chi sa che morirà di li a poco. Quattro mesi di vita, gli ultimi, ci passano davanti agli occhi, procedendo a ritmo di inchiesta; un puzzle viscoso, costruito per fatti, nessuno spazio per possibili interpretazioni. Così il regista riesce a creare una storia asciutta e poetica, dove la presa di coscienza di vivere in stato di guerra perenne, in una zona di confine (FortApasc, appunto), avviene gradualmente come in una catarsi collettiva attraverso le parole di un curioso osservatore, che diventa l’unico esempio possibile di redenzione. Siani non è un eroe è solo un comunissimo ragazzo che fa quello che ama fare e che sa fare meglio: informare. Non fugge, non si nasconde, non si lamenta mai, rimane radicato alla sua terra per raccontarla al meglio possibile a chi non la conosce ed anche a chi ci vive ma non si rende conto. Non può fuggire nè lamentarsi perchè è più forte di lui, non potrebbe esistere in modo diverso. La redenzione, però, non sempre si vuole, la redenzione è spesso scomoda e faticosa, perchè prima bisogna ammettere di aver sbagliato, ma un sistema che si pone come Stato alternativo fondato su regole proprie, difficilmente ammette qualcosa, si limita a preservarsi cristallizzato così come è, a qualunque costo! La redenzione che propone Siani sembra, dunque, sin dall’inizio, una lotta contro i mulini a vento, un Davide che scaglia pietruzze contro il gigantesco Golia. Questo giovane, impulsivo, appassionato, precario a tratti incosciente sa quello che è giusto e consapevolmente, come una spada, affonda il colpo, anche lui a qualunque costo.
Attraverso gli occhi del protagonista riflettiamo su una realtà che apparentemente non ci tange, ma nella quale siamo invischiati anche noi, perchè potenzialmente siamo tutti Siani nella scelta del prendere posizione e di vivere una vita veramente informata e consapevole. Ci si interroga sul paese, sulla sua classe politica, sulla magistratura e sull’informazione, ognuno gioca un ruolo a sè stante ma collegato agli altri. Si arriva, così serenamente, ad ammettere che l’Italia non è un paese per giornalisti-giornalisti, è un paese per giornalisti- impiegati, come a dire che è il sistema stesso a non volere libertà: chi è troppo libero, anche se nel giusto, paga ... paga con la vita, paga con il non poter avere una casa, una famiglia, un cane, una vita normale insomma, perchè semplicemente viene fatto sparire (Attenzione al dialogo con il redattore capo della sede distaccata del Mattino a Torre Annunziata).
Il film scivola via e senza accorgercene siamo già all’epilogo che conosciamo, ma che non vorremmo fosse vero.
Le luci si riaccendono, la platea intera è gelata, il loro sangue come il mio si è fermato, l’ultima immagine che abbiamo negli occhi è quella del vero Giancarlo con la faccia dipinta di bianco e sulla guancia il simbolo della pace, forse durante una delle tante manifestazioni di operai organizzati alle quali aveva preso parte. Un ragazzo, non era che questo. Uno che con le sue sole forze e senza abbandonare il campo ha sempre continuato a cercare la verità e per quella ricerca è morto. Uscita dal cinema non posso fare a meno che pensare... “Infondo quello era il 1985, ne sono cambiate di cose, molti boss oggi sono in galera e la stampa nazionale non si spertica a raccontare di mafia così spesso! Vorrà dire che le cose non stanno più così!”... Poi rinsavisco e mi viene in mente il caso Saviano...Saviano che se messo a confronto con Siani mostra tutto il suo limite divistico e me lo fa apparire più per uno scrittore-venditore, che per un giornalista. Non è questo che importa, non è la mutazione genetica dell’informazione a preoccuparmi (per lo meno non in toto) è la consapevolezza di vedere che le cose non cambiano, che non si può mai abbassare la guardia! Mi viene in mente su cosa gioca questa gente: sull’omertà, sull’agire sottobanco tenendo sotto controllo chi effettivamente li traduce per come sono, senza accarezzarli e compiacerli ed allora mi assale la paura come quella dell’Uomo nero, una presenza che si muove nel buio ma che non puoi toccare o vedere se non per gli effetti di terrore che produce.

mercoledì 25 marzo 2009

Quinto lancio: Quando vorremo sentire paura...



Propongo, come a volte mi capita di fare, alcuni articoli...la loro portata è indiscutibile e perlomeno affascinante, almeno quanto è disorientante la prospettiva, se ancora di prospettiva si può parlare...tra una quantità di tempo diranno: un tempo c'erano binari, strade, rotte, tutte si fondavano sul principio della linea, più spesso una linea poco distante da un'altra, che proseguiva sorella, parallelamente...le chiamavano vie...poi successe che anche le linee scoprirono di non capirsi, si sentivano diverse, presero ad allontanarsi. L'uomo sulla via iniziò a chiedersi se fosse un miraggio pareva proprio che i margini si stessero allargando, lui non ci fece troppo caso, del resto non poteva fermare il suo cammino e dopo poco si accorse di essere su uno spazio aperto, nessun margine certo! ora poteva correre a caso, poteva fare curve o cerchi, non avrebbe fatto differenza.
Si narra che passato del tempo si trovò a disperarsi, non sapendo dove fosse, cercava una traccia ma aveva dimenticato troppo presto il bagliore tenue che affascinava il suo orizzonte...

Gli articoli:
- Le emozioni della musica
sono davvero universali


- Arriva la «virtualità reale»

- Se arte e merce si scambiano i ruoli

extitolum:...ci cingeremo con le nostre stesse infinite braccia

martedì 17 marzo 2009

Rubrica: Vanessa Beecroft


Installazione, opera del 2001, di Vanessa Beecroft, artista italiana.
Ho deciso di proporre quest'opera per vari motivi, il principale dei quali è legato al dibattito che si è aperto sul "ruolo" dell'arte contemporanea e in particolar modo di quella concettuale.
Questa non è esattamente un'opera da considerarsi concettuale, se non per alcune sue caratteristiche (forse quasi tutte relative ai volti delle modelle), ma è certamente subito evidente il suo impatto, come di una dichiarazione immediata, assolutamente Politico; primo dei motivi per cui l'ho inserita.
Secondo motivo è il suo imprimersi in una traccia di richiami alla "forma", non solo per la composizione, le modelle hanno posizioni e posture volute dall'artista, ma anche per l'evidente citazione di De Chirico, quindi di una precedente rielaborazione del classico.
Il terzo motivo è dato dalla leggibilità, l'opera può apparire criptica, molto più criptica dello zoccolo di Manzoni...ma prima di affermare se lo sia o no, bisogna chiedersi appunto se vi è un messaggio, per così dire "linguistico", altrimenti è inutile parlare di criptico...successivamente ci si chiede: cosa mi si sta dicendo? In questo caso come succede anche per un'opera mimetica, si osserva ciò che è riconoscibile (donne, maschere senza volto, nudità, numero di persone, ecc.) si prendono questi elementi e ci si chiede se hanno una relazione tra loro, come si fa osservando un qualsiasi quadro, come ad esempio la S.Cecilia di Raffaello.
Se poi mi si dice che gli elementi del quadro del cinquecento, sono meno criptici per gli spettatori del tempo, rispetto a quelli usati nell'opera della Beecroft, direi che c'è un errore di fondo, si confonde un messaggio con la riconoscibilità dei simboli che lo compongono; ma soprattutto si confonde la "dichiarazione" che un'opera compie con la sua spiegazione.
Infine non bisogna reprimere dinnanzi ad un'opera tutto il suo richiamo al nostro "corpo", come già è stato suggerito, il fatto che essa "vuole" interagire con noi, a livelli e in modi diversi a seconda dell'opera in questione... non bisogna per questo chiudersi cercando di fagocitare per ben digerire, ma lasciarsi ad ogni propria compromissione con l'opera stessa.

mercoledì 11 marzo 2009

Quarto lancio...


Manifesto prog-grammatico del...

Art.1
Irridiamo il chiaro di luna. Sbeffeggiando cordialmente vittima e carnefice.
Prendiamo una scacchiera, dipingiamo di nero (tres chic!) tutti i quadrati, lasciando solo i margini bianchi a testimonianza della loro presenza, posizioniamo le pedine nei due schieramenti. (Non ce ne voglia Yoko Ono, ma ci sembra più attuale...)

Art.2
Sminuzziamoci, ma fluidamente. Siamo in sospensione, fluidi ma non liquidi, per paura che ci si secchi la pelle. Polluzzioniamoci...
Siamo eterei (nella falsa accezione di aei-theo: sempre scorre; diviene): Eter(e)ogenei; Eter(e)oformi; Eter(e)oglotti; Etereosessuali (mi raccomando senza parentesi).

Corollario:
Siamo gli Altri, presi individualmente, anzi no per parti, parti individuali. Oppure per gruppi, fusi, siamo fissioni... gruppi di parti individuali, non troppo estesi, magari se proprio vogliamo essere massa che si sia tutta intera: tutti gli uomini esistenti o esistiti e che non manchi nessuno, se qualcuno viene a mancare lo si deve inventare.

Postilla al corollario:
Siamo gli Altri passibili di autolesionismo...ogni nascita è una sopraffazione.

Art.3
Evitiamo di stipulare manifesti prog-grammatici. Tanto non è che ci si debba identificare o far identificare. A meno che non vogliamo definirci Neo-Retroguardia: troppo pavidi per la prima fila, veniamo a sostituire la melma più profonda, un humus di fermenti distillato.

Corollario:
Inneggiamo alla pompa sodio-potassio!!!!!
Inneggiamo al brodo (anche a quello triste)!!!!
Inneggiamo alla vanità di un sorriso lucido...godendone!!
Viviamo la sensibilità di un magnetismo tra gli interstizi!!
Viviamo la venerazione del sacro che si nega!
Ri-veliamo!

Art.4
Allarmati?Dovete preoccuparvi, poiché forse scherzavo...

Corollario:
L'art.4 può essere passibile di emendamenti...hihihiihihiihihi!!

Firme:
Artax



Extitolum:...nella centrifuga!!

martedì 10 marzo 2009

Terzo lancio...


Con il Terzo lancio...intendo aprire una sorta di rubrica, se così può chiamarsi e se si riuscirà a tenerla, diciamo settimanale (con liberi slittamenti) di opere artistiche.
La prima proposta è questo "Socle du monde" ( "Zoccolo del mondo", "Base of the World", 1961,iron, bronze, 82x100x100cm, Herning Kunstmuseum, Denmark), del non ancora, se non forse in ambito specialistico, sufficientemente acclamato, perlomeno nel nostro e suo paese, Piero Manzoni, certamente uno dei più grandi artisti italiani del secolo scorso.
Essendo opera di arte concettuale e essendo per me fulminante, non mi metterò a commentarla (anche a causa dell'inesperienza), ma lascio a voi l'impatto, per me così piacevole, con questa evidenza. Faccio solo notare che se la scritta sul blocco è a rovescio, non è certo ovviamente per un errore fotografico...:)

ex titolum:...contro una lastra di vetro!

giovedì 26 febbraio 2009

Un posto pulito e illuminato bene


Un posto pulito e illuminato bene. Non desidero altro.

Rimanere da sola in mezzo alla gente. E pensare che potrei togliere alla folla ancora un pezzo di me. Ai discorsi le chiacchiere, a beneficio dei silenzi, delle pause e dei respiri.

A scuola ti abituano a pensare che raccontare sia soprattutto autocelebrarsi. Forse non in tutte le scuole, ma nel mio caso è andata così. Dire alla gente ‘chi siamo’ e convincerli che siamo interessanti. Con la sovrabbondanza di aggettivi, gli avverbi in -mente e l’abusato costume dell’espressione per metafore. A dispetto di quello che abbiamo da dire.

Nei temi in classe ci vendevamo all’insegnante fino all’ultima riga: “Concludendo ritengo fondamentalmente e verosimilmente… Sono quindi convinta che sia utile, necessario e importante…Quello che ho imparato da questa esperienza e che qui riassumerei con la metafora del baco da seta…”. Ma non è vero. Non c’è sempre una conclusione, una morale. Non c’è sempre una metafora del baco costruita ad hoc per uscirne come le farfalle, con un leggero sbattere d’ali (aridaje ste figure retoriche!). Educati ad avere un’opinione su tutto, spesso parliamo di problemi e non di persone, di astrazioni e non di situazioni concrete. Ma non si possono suscitare pensieri con i pensieri, emozioni con le emozioni.

Per me raccontare è togliere più che aggiungere. Osservare e ascoltare, senza buttare via niente. Mai credere che un dente scheggiato non possa mordere il nostro interesse, che in un piccolo caffè non si giochi una partita importante. Poi prendere il blocco, il ceppo grezzo di realtà che ci è caduto tra capo e collo… e lavorarlo. Schizzare via la confusione a colpi di cesello e fare una scelta: la parola adatta, al momento adatto, nel modo adatto. Forse raccontare, in questa accezione, può anche insegnarci qualcosa. Che la nostra voce e i nostri occhi non servono a niente se non li mettiamo a servizio. Che scrivere, fotografare, filmare sono mestieri che implicano cura. La stessa che trovo in un luogo tranquillo e illuminato bene.

P.S. Aggiungo di seguito il racconto di Hemingway, perché solo dopo averlo letto ci si convince dell’esigenza di questo posto. Trattasi non di desiderio indotto, ma di coscienza sopita… e del racconto mi piacerebbe discutere.


Era tardi e tutti avevano lasciato il caffè tranne un vecchio seduto all'ombra che le foglie dell'albero formavano contro la luce elettrica. Di giorno la strada era polverosa, ma di notte la rugiada fissava la polvere e al vecchio piaceva stare seduto fino a tardi perché era sordo e di notte c'era un gran silenzio e lui avvertiva la differenza. I due camerieri dentro il caffè sapevano che il vecchio era un po' sbronzo, e pur essendo un buon cliente sapevano che se si fosse sbronzato un po' troppo se ne sarebbe andato senza pagare, perciò lo tenevano d'occhio.
"La settimana scorsa ha tentato di suicidarsi" disse un cameriere.
"Perché?"
"Era disperato."
"Per cosa?"
"Niente."
"Come sai che non era niente?"
"Ha un mucchio di quattrini."
Sedevano insieme a un tavolo contro il muro vicino alla porta del caffè e guardavano il marciapiede dove i tavoli erano tutti vuoti tranne quello dove sedeva il vecchio all'ombra delle foglie dell'albero che il vento muoveva appena. Una ragazza e un soldato passarono per la strada. La luce del lampione brillò sul numero di ottone che il soldato aveva sul colletto. La ragazza era senza cappello e camminava frettolosamente al suo fianco.
"Si farà pizzicare dalle guardie" disse un cameriere.
"Cosa importa se ottiene ciò che vuole?"
"Faceva meglio a togliersi dalla strada. La guardia lo pescherà. Sono passati cinque minuti fa."
Il vecchio seduto nell'ombra tamburellò col bicchiere sul piattino. Il cameriere più giovane gli si avvicinò.
"Che cosa desidera?"
Il vecchio lo guardò. "Un altro brandy" disse.
"Si ubriacherà" disse il cameriere. Il vecchio lo guardò. Il cameriere se ne andò.
"Rimarrà tutta la notte" disse al collega. "Io comincio ad aver sonno. Non vado mai a letto prima delle tre. Avrebbe dovuto uccidersi la settimana scorsa."
Il cameriere prese la bottiglia di brandy e un altro piattino dal banco all'interno del caffè e marciò verso il tavolo del vecchio. Depose il piattino e riempì il bicchiere di brandy.
"Avrebbe dovuto uccidersi la settimana scorsa" disse al sordo. Il vecchio fece dei segni col dito. "Un altro po'" disse. Il cameriere continuò a riempire il bicchiere finché il brandy traboccò e colò lungo lo stelo del bicchiere nel primo piattino della pila. "Grazie" disse il vecchio. Il cameriere riportò la bottiglia nel caffè. Tornò a sedersi al tavolo con il collega.
"Adesso è ubriaco" disse.
"È ubriaco ogni notte."
"Perché voleva uccidersi?"
"Come faccio a saperlo?"
"Come ha fatto?"
"Si è impiccato con una corda."
"Chi lo ha tirato giù?"
"Sua nipote."
"Perché lo hanno fatto?"
"Paura per la sua anima."
"Quanti soldi ha?"
"Tanti."
"Avrà ottant'anni."
"Forse qualcuno di più."
"Vorrei che andasse a casa. Non vado mai a letto prima delle tre. È quella l'ora di andare a letto?"
"Sta alzato perché gli piace"
"Lui è solo. Io no. A letto ho una moglie che mi aspetta."
"Una volta l'aveva anche lui."
"Adesso una moglie non gli servirebbe a niente."
"Chi lo sa? Con una moglie forse starebbe meglio."
"Gli bada sua nipote. Hai detto che lo ha tirato giù lei."
"Lo so."
"Non vorrei diventare così vecchio. I vecchi sono sporchi."
"Non sempre. Questo vecchio è pulito. Beve senza sbrodolarsi. Anche adesso che è ubriaco. Guardalo."
"Non ho voglia dì guardarlo. Vorrei che andasse a casa. Non ha rispetto per chi deve lavorare."
Il vecchio alzò gli occhi dal bicchiere, guardò la piazza, e poi i due camerieri.
"Un altro brandy" disse, indicando il bicchiere. Il cameriere che aveva fretta gli si avvicinò.
"Finito" disse, parlando con quelle omissioni sintattiche di cui si servono gli stupidi quando si rivolgono agli ubriachi o ai forestieri. "Stasera basta. Adesso chiuso."
"Un altro" disse il vecchio.
"No. Finito." Il cameriere pulì l'orlo del tavolo con uno strofinaccio e scosse la testa.
Il vecchio si alzò in piedi, contò lentamente i piattini, tolse di tasca un borsellino di cuoio e pagò, lasciando mezza peseta di mancia.
Il cameriere lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava lungo la strada, uomo vecchissimo che camminava con passo incerto ma con grande dignità.
"Perché non hai lasciato che restasse qui a bere?" chiese il cameriere che non aveva fretta. Stavano abbassando le serrande. "Non sono ancora le due e mezzo."
"Voglio andare a letto."
"Cos'è un'ora?"
"Per me più che per lui."
"Un'ora è uguale per tutti."
"Parli anche tu come un vecchio. Può comprarsi una bottiglia e bersela a casa."
"Non è la stessa cosa. "
"No, non è la stessa cosa" ammise il cameriere ammogliato. Non voleva essere ingiusto. Aveva soltanto fretta.
"E tu? Non hai paura di andare a casa prima della solita ora?"
"Stai cercando d'insultarmi?"
"No, hombre, solo di dire una battuta."
"No" disse il cameriere che aveva fretta, raddrizzandosi dopo aver abbassato le serrande di metallo. "Io ho fiducia. Sono pieno di fiducia."
"Hai giovinezza, fiducia, e un lavoro" disse il cameriere più vecchio. "Hai tutto."
"E a te cosa manca?"
"Tutto tranne il lavoro."
"Hai tutto quello che ho io."
"No. Non ho mai avuto fiducia e non sono giovane."
"Dai. Smettila di dire sciocchezze e chiudi a chiave."
"Io sono di quelli ai quali piace stare al caffè fino a tardi" disse il cameriere più vecchio. "Con tutti quelli che vogliono andare a letto. Con tutti quelli che hanno bisogno di una luce per la notte."
"Io voglio andare a casa e a letto."
"Siamo due razze diverse" disse il cameriere più vecchio. Adesso era vestito per andare a casa. "Non è solo questione giovinezza e di fiducia, anche se sono bellissime cose. Ogni notte io sono restio a chiudere perché può esserci qualcuno che ha bisogno del caffè."
"Hombre, ci sono delle bodegas aperte tutta la notte."
"Non capisci. Questo è un caffè piacevole, pulito. È illuminato bene. La luce è molto buona e, adesso, ci sono anche le ombre delle foglie."
"Buonanotte" disse il cameriere più giovane.
"Buonanotte" disse l'altro. Spegnendo la luce elettrica continuò la conversazione con se stesso. È la luce, naturalmente, ma bisogna che il locale sia piacevole e pulito. Non ci vuole la musica. La musica non ci vuole di certo. E non puoi stare dignitosamente in piedi davanti a un banco, anche se per queste ore della notte un banco è tutto quello che ti danno. Di che cosa aveva paura? Non era né paura né timore. Era un niente che conosceva troppo bene. Era tutto un niente, e anche un uomo era niente. Era soltanto questo, e tutto quello che ci voleva era la luce, e un certo ordine e una certa pulizia. Alcuni ci vivevano e non lo avvertivano mai, ma lui sapeva che era tutto nada y pues nada y nada y pues nada. Nada nostro che sei nel nada, nada sia il nome tuo, il regno tuo, nada sia la tua volontà, nada in nada come in nada. Dacci questo nada il nostro nada quotidiano e nadaci il nostro nada come noi nadiamo i nostri nada e non nadarci in nada ma liberaci dal nada; Ave niente pieno di niente, niente sia con te. Sorrise e si fermò davanti al banco di un bar con una lucente macchina da caffè a vapore.
"Cosa prende?" chiese il barista.
"Nada."
"Otro loco mas" disse il barista, e gli voltò le spalle.
"Una tazzina" disse il cameriere.
Il barista glielo versò.
"La luce è molto viva e piacevole, ma il banco non è lucido" disse il cameriere.
Il barista lo guardò, ma non rispose. Era troppo tardi per fare conversazione.
"Vuole un'altra copita?" chiese il barista.
"No grazie" disse il cameriere, e uscì. Non gli piacevano né i bar né le bodegas. Un caffè pulito, illuminato bene, era una cosa molto diversa. Adesso, senza pensarci più, sarebbe tornato nella sua stanza. Si sarebbe messo a letto e finalmente, alle prime luci dell'alba, si sarebbe addormentato. Dopo tutto, si disse, probabilmente è soltanto insonnia. Chissà quanti ce l'hanno.


mercoledì 25 febbraio 2009

Secondo lancio...


Devo dire che Alessandro Baricco non mi è mai piaciuto un granché...delle sue cose non ho letto molto e del personaggio-autore so ancora meno, forse perché l'impressione che ho sempre avuto da lui è quella di un venditore; non mi verrebbe da dire un buon venditore, forse perché ritengo che un buon venditore deve saper far credere al cliente che è stato il cliente stesso a scegliere il prodotto e non il venditore a proporlo più o meno insistentemente; è possibile che mi sbagli nei suoi riguardi, del resto sono innegabili le sue capacità retoriche e per così dire carismatiche.
Questo preambolo però non ha quasi nulla a che vedere con la proposta del post, se non il fatto che l'articolo che vi propongo è scritto da Baricco, il titolo è Basta con i soldi pubblici al teatro meglio puntare su scuola e tv.
Lo so l'articolo è lungo, cosa che stona con la dinamicità del web, ma è piuttosto interessante e appare evidente come l'impressione, per me fastidiosa, di un Baricco venditore venga più o meno confermata ma che assuma una prospettiva non priva di fascino e rivalutazione delle intenzioni.
Ciò che appare evidente è la consapevolezza che Baricco ha della società, o meglio dei meccanismi e delle spinte che la regolano, che sono sempre e costantemente basati sulla soddisfazione di una domanda con una offerta.
Se alfabetizzare significa insegnare alla massa, che vige, a saper chiedere, a domandare il "meglio", così che la massa sappia fruirne, allora credo che siamo per la maggior parte d'accordo, e Baricco non fa altro che proporre un metodo forse corretto di migliorare la situazione.
Quello che credo io, è che sia una analisi tutto sommato giusta, gli sprechi sono molti, probabilmente in ogni settore, ma che l'autore-venditore, un po' alla sua maniera ricalcando il ruolo che si è disegnato di voce anti-accademica, non faccia che lanciare una provocazione più che una proposta. Se fosse stata una proposta seria, si sarebbero dovuti considerare gli sprechi del denaro pubblico come una totalità, un sistema da analizzare nella sua complessità secondo parametri di servizio e principio. Del resto dire che il modo migliore di alfabetizzare è nella tv, nell'era ormai consolidatissima del world wide web, mi sembra proprio una baggianata!!!Proprio per questo credo che di proposte più serie, come per esempio usare il denaro pubblico per portare la rete nei luoghi più remoti del nostro paese, ce ne siano da fare, le sue restano in calce, piuttosto ridicole nella situazione generale del paese in questo momento (...sembra di stare di fronte alla classica sindrome dell'umanista che vive tra le nuvole!!), ma apprezzabili per la spinta culturale che molti di noi auspicano.

extitolum:...in aria

martedì 24 febbraio 2009

Primo lancio...


A volte chiedo alla voce di dirmi, di pronunciarmi. Forse è quello che per essenza è l'indistinto. Un indistinto di cui non saprò mai se è ciò che percepisco, più esattamente sento: se è qualcosa di cui sono cosciente: una nota, un timbro, un interstizio, una demarcazione, nessun margine, uno svanire, un apparire: non saprò mai se sono suggestionato dallo scorrere, se è l'appercezione, se è il fuori, se è.
A volte sembra di riconoscerne l'intenzione, è come una rielaborazione estetica, essa eccede, è eccedenza, si eccede. Pare che lei sia lì e la si senta come un sibilo, un sussurro continuato, sempre uguale, mai riconoscibile in un detto. Pare altre volte, che sia violenza che non si esaurisce nell'atto, che non è l'atto, che non sia nell'atto, ma che ci sia come una dichiarazione...
....la parata si impone alla vista, in tutta la sua orchestrazione, è così prorompente da non permettere di sciogliere la sensazione di totalità che provoca benché ci si possa concentrare sui suoi ballerini festanti, sui tendoni e gli scoppi, i suoni e gli applausi. Dinnanzi la folla e lei che avanza, lei che avanza con la sua impressione gigantesca, ci assorbe, ci colpisce. Poi come per un risveglio insofferente vogliamo, vogliamo e vediamo che era tutta lì ed ora è tutta altrove, è passata, noi siamo distanti ma non ci è sembrato che lei ci abbia allontanato, che lei potesse privarci del suo materno abbraccio deliberatamente, avevamo semplicemente bisogno della nostra indipendenza e non era possibile che lei potesse privarci del suo materno abbraccio deliberatamente; ormai distanti siamo soli, la calca si dirada, l'impressione di soffocamento e insieme di abbandono ad un unico respiro, è passata. Ci voltiamo e d'un tratto riconosciamo il legame che ci conduce alla sua scia, sembra di sentirla ancora la parata lì lontano, se non ci fosse nulla a distrarci, se non dimenticassimo di trattenerla potrebbe sembrare di sentirla ancora la parata lì lontano, resterebbe quella grande voce; e ci voltiamo stupiti, deve essere vicina, deve averci unito a lei, è una minaccia suadente, una nostalgia viva, resta quella grande voce forse ne facciamo ancora parte, mentre la sentiamo riecheggiare quando sembrava ormai che dovesse essere concluso tutto. Sorridiamo prima di rientrare nelle mura domestiche quando sembrava ormai che dovesse essere concluso tutto e senza chiederci più di tanto, come se ci dovesse essere certamente una qualche spiegazione a quella voce, a quei suoni che tornano, non si sa bene da dove...quella grande voce...

extitolum:...nello stagno

giovedì 12 febbraio 2009

Una voce fino in fondo: Milk.




Dare voce alla minoranza, dare voce all'emarginazione, mostrare l'evidenza di ciò che la compone. Il film si apre su un uomo, nel momento in cui sta registrando il proprio discorso, forse l'ultimo. E' in una stanza vuota e parla attraverso un registratore, si narra e narrandosi si rende evidente a se stesso, si percorre per essere mostrato tutt'intero come in un confiteor dove il fine è essere assolto, ma nel senso di "sciolto, slegato" da sé, per farsi voce comune e rendersi fino in fondo presente. Quest'uomo è Harvey Milk, primo uomo politico dichiaratamente omosessuale ad aver raggiunto una carica pubblica negli Stati Uniti e la storia narrata attraverso il film di Gus Van Sant, è la ricostruzione di alcune vicende che hanno caratterizzato il percorso di presa di coscienza, attivismo e rappresentanza che Milk ha intrapreso, facendosi primo ispiratore del movimento gay di quegli anni. Lo spettatore assiste e sembra accompagnato docilmente, con generosità, da quella voce narrante e dalle sequenze filmiche, attraversando come per una lacerazione che si apre fino a compiersi al termine della visione tutto lo spazio di separazione che gli dona una visuale privilegiata e la capacità di giudicare, egli si accorge che ciò che viene messo in scena principalmente è lo "svelamento": Harvey che invita ogni omosessuale a dichiararsi dinnanzi alla comunità, educa allo sguardo una società che si rende cieca e violenta per paura; è così che noi spettatori ci accorgiamo di aver colmato quello spazio, cioè attraverso la lacerazione della nostra capacità di distinguere e distinguerci, scoprendo di comprendere quella vita messa in scena perché non più capaci di estrarre ciò che veniva chiamato gay come un giudizio, da ciò che è una vita nel suo svolgersi. Quella voce si fa specchio di ogni voce, di ogni minoranza propria della nostra interiorità. Allo stesso tempo nella scelta di inserire sequenze di filmati storici che sono memoria condivisa, si nota la volontà del regista di riproiettare chiunque all'interno degli eventi, ricordare che è una storia "condivisa" per molti aspetti e che lo è proprio per il fatto che ha alla base una storia individuale, questo forse il motivo di una mistione non forzata, ma solo accennata, di stile documentaristico e narrazione finzionale.
In ultimo, però, come sempre, c'è da chiedersi se si fosse potuto raccontare in modo diverso, soffermarsi su altri temi, agganciarsi ad altri sentimenti...ciò che appare chiaro è come Van Sant abbia calcato sulla forza d'urto, sull'atmosfera energica, sull'impatto civile, che le vicende di Milk e il suo esempio hanno portato, girando più volte sequenze in cui a essere soggetto è la massa, l'urlo plurimo e indistinto, che attraverso la propria legittimazione faceva breccia all'interno del soffocamento di una società bigotta. Ma poca, o quasi nulla, è la narrazione di uno degli ostacoli, certamente attualissimo, più difficilmente sormontabile, ovvero il dissenso interiore e interno: interiore perché è il dissenso che il proprio io fa a se stesso negandosi, nascondendo le sue inclinazioni, attanagliandosi intorno alla mancanza di risposte che immobilizza; interno perché è quello che può venire dai componenti del movimento stesso, che non vogliono sacrificare i valori di cui si sentono fondati e che entrano in contraddizione con se stessi, rivendicando però la legittimità di tale contraddizione (basta guardare al fenomeno degli omosessuali-cattolici). Questo nel film viene forse a mancare o ad ogni modo è solo accennato qua e là, senza dargli il giusto peso, forse perché esso ha un andamento a climax, che trasporta per ritmo indipendentemente dallo sviluppo degli argomenti che vengono toccati...ma forse è anche vero che altrimenti sarebbe stata un'altra storia.

venerdì 6 febbraio 2009

I Classici

Aggiungo il link di un "interessante" articolo sul rapporto generico con quelli che sono considerati i classici della letteratura(articolo). La definizione, inserita nell'articolo, è quella di canone letterario che fa di un'opera un classico. Questo certo estendibile a qualsiasi disciplina in cui si considerino alcune opere come dei classici. E la domanda che per prima ci si dovrebbe porre è se ci sia bisogno di questa categoria o sia "interessante" chiedersi cosa o no è considerabile classico...ma si deve ammettere che questa domanda non sussiste, per fortuna, anche solo per il fatto che non stiamo qui a dimostrare una verità, ma al massimo a ragionare su un fenomeno che di per sé appare strano: esistono definizioni o più propriamente aggettivi che possano nascondere la qualità, essi non definiscono propriamente, ovvero non distinguono e forse nemmeno accomunano ciò a cui si accostano. Ne è un esempio il "classico", che di per sé in realtà non si sa bene quali qualità e caratteristiche associ all'opera; esso descrive la sua diffusione? La sua popolarità? Il suo valore? La sua immortalità presunta? L'influenza sulla cultura della propria civiltà? La capacità di esprimerla, di esprimerne dei tratti? La bellezza dell'opera? La quantità di esperti del settore che la apprezzano? O che la criticano? La quantità di citazioni che ha avuto? Tutte queste cose insieme? Nell'articolo si cita Berardinelli che dice che un classico è ciò che sopravvive a ondate di consenso successive, e allora mi chiedo un'opera che sopravvive pur non avendo ricevuto mai consenso è o no un classico? Potremmo fare l'esempio di un maestro del cinema che ha recuperato per un suo film la figura di Ed Wood, quello considerato come il peggior regista della storia, praticamente rendendola un classico, o forse mi sbaglio? E in una cultura postmoderna e citazionista che è passata attraverso la pop-art,il pulp e la consacrazione dei b-movie, dove tutto è recuperabile e ogni cosa è associabile in quanto fruibile, come fare a dare voce alla parola classico? (Potrebbero essere pippe da critici, se non fosse che tutti usiamo questo termine, per lo meno però credo che quando lo usiamo noi, una cosa la intendiamo tutti, se un'opera è un classico indipendentemente da tutto è certamente "interessante" conoscerla.)