lunedì 3 ottobre 2011

L'inattuale umanesimo




A un certo punto, tra 300' e 400', seguendo un pungolo interiore, probabilmente un estro del comportamento, che più in generale potrebbe far pensare a una forma di coscienza nuova con i lampi di cambiamento sempre un poco miracolosi che accompagnano tali esperienze,benché risultato di un percorso storico, nacque in un gruppo di intellettuali l'approssimarsi determinato a uno stato di elezione. La determinazione in questione era il primo elemento che dimostrava una qualche novità, poiché indicava una volontà di mutamento e di affermazione individuale che incidesse sulla circostanza culturale del proprio tempo. Lo stato di elezione riguardava una determinata considerazione della tradizione classica sopravvissuta fino a quel momento, dato che nell'accostarsi ad essa si alimentava una sorta di autodeterminazione dell'intellettuale o dell'intellettualità che rompesse con la formula statica di una rigida accettazione schematica del passato propria di quel periodo che loro stessi chiamarono "medioevo" in senso spregiativo come a sancire la rinascita. Il nucleo che definisce questa realtà nuova fu l'intenzione di realizzare al più alto stadio l'idea di "Uomo" e fu sotto tale segno che si chiamò "umanesimo": l'idea dunque prevedeva la considerazione dell'uomo come di un essere che assunto se stesso potesse attraverso il percorso di una conoscenza attiva e critica perché partecipativa e operante nutrire la propria realtà spirituale per giungere ad una verità etica o perlomeno per fare della propria vita il percorso verso questo ideale. In tal senso si leggano queste parole di Petrarca; nel trattato De suis ipsius et multorum ignorantia egli scrive:


"Ho letto, se non erro, tutte le opere morali di Aristotele, certe altre le ho sentite esporre, e prima che fosse messa a nudo l'enorme mia ignoranza sembrava che ne capissi qualcosa. Da quelle opere me ne tornai forse più dotto, ma non migliore, come pur sarebbe stato conveniente, e spesso tra me, e talvolta anche con gli altri, mi lagno che nella realtà non si verifichi ciò che nel primo libro dell'Etica quel filosofo premette: che cioé egli vuole insegnare quella parte della filosofia non per aumentare il nostro sapere ma per farci buoni. In verità m'accorgo ch'egli ha definito con acutezza la virtù, e l'ha egregiamente suddivisa, trattando gli attributi che sono propri sia del vizio sia della virtù. Dopo aver imparato tutto questo, io so un po' più di quel che sapevo, ma l'animo è rimasto quello che era e la volontà, la medesima, e il medesimo sono io. In realtà, altro è sapere e altro è amare; altro è comprendere e altro è volere."


Il testo è un'aperta accusa alla Scolastica, ma non solo, è anche l'affermazione di una tendenza a voler cogliere l'essenza di un'epoca, quella classica, tutt'altro che per attualizzarla o riproporla ma per "destituirla", ossia non screditarla ma restituirla ad una posizione di aperto dialogo riducendo il principio d'autorità a una cattiva abitudine, perlomeno nel campo artistico. Raccogliere l'esempio dei classici è per gli umanisti tornare a "cominciare". È in tal senso che l'umanesimo si pone come un rinascimento, attraverso un'emancipazione, un'affermazione d'indipendenza, che rivitalizza lo stesso spirito classico.
L'umanesimo per la prima volta nella storia dell'occidente dopo il periodo classico coglie il senso profondo del carattere poietico dell'arte e ne fa uno stato d'eccezione. In effetti, l'eccezione in questione o elezione riguarda una sorta di aristocrazia della cultura, dove paradossalmente pur nella promozione del volgare il cibo eletto che nutre lo spirito non ha alcun carattere di diffusione popolare o massificata, nessuna etica divulgativa o comunitaria, eppure al di là di giudizi di merito o demerito pare che anche in questo caso il carattere di minoranza e selettività del prodotto artistico sia un suggerimento che giunge alla nostra epoca come una verità tuttora insuperata. Tuttavia non va confuso l'atteggiamento elitario con una rigidità di casta, dato che il sapere era pur sempre inteso come un valore universale a cui ognuno poteva accedere, anzi forse meglio a cui ognuno doveva accedere per realizzare la propria "humanitas". In tal senso, la promozione del volgare è tutt'altro che una "volgarizzazione" dell'arte per una sua diffusione maggiore, ma è la coscienza profonda di come attraverso l'appropriarsi di una lingua e il suo cesellamento erudito e letterario si potesse afferrare l'opportunità di un nuovo inizio, nella libertà insita nel mezzo stesso, in una estrema coesione tra le possibilità della materia e le possibilità della forma. Proprio nel campo linguistico è resa l'evidenza di quel processo dialogico con la cultura classica, dove non si nota alcuna intenzione di rifiuto verso il latino, anzi una sua promozione, ma contemporanea all'appropriazione di quelle forme che erano utili per modellare il volgare, plasmarlo secondo l'esempio a lingua d'arte. 
Tale scelta prova come l'elitarietà non fosse legata ad una ideologia settaria di chiusura ma riguardasse una libertà morale individuale rivolta idealmente ad ogni singolo uomo a voler elevare la propria realtà umana. 
È dunque un sogno etico e spirituale di elevazione che fa della cultura una linfa a cui attingere per ogni azione nuova che abbia come fine il sogno stesso, in questo si trova dunque la sua inattualità che si ripropone dirompente e modernissima. 



P.S. Mi rendo conto della marginalità settoriale del tema, pur ritenendo l'argomento avere ampi riflessi, nel caso avessi annoiato qualcuno me ne scuso.




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