giovedì 2 aprile 2009

Il confine FortApasc

E’ la sera del 23 settembre 1985, una canzone di Vasco Rossi viaggia sull’autoradio di una scassatissima Citroen Mehari verde pisello. Dall’alto, non le stacchiamo gli occhi di dosso, la dobbiamo seguire, è lui! Le vie tortuose di Napoli sono illuminate dall’arancione dei lampioni e dal bianco di una grande luna.
Così Marco Risi apre e chiude il cerchio del film FortApasc e lascia che sia la voce citofonica e scanzonata di Libero di Rienzo ad accompagnare lo spettatore-lettore nel racconto dell’ultima notte di vita di un ragazzo. Libero non smentisce il suo nome in una delle interpretazioni più oneste e pacate che abbia mai fatto. Per tutti i 108 minuti rivivifica il libero Giancarlo Siani, giornalista ventiseienne del Mattino di Napoli, morto ammazzato dalla camorra, per aver squarciato il velo d’omertà sulle connivenze tra politica e mafia nella Torre Annunziata degli anni ottanta.
Il film risulta veloce e dinamico, volutamente poco organico come il pensiero di chi sa che morirà di li a poco. Quattro mesi di vita, gli ultimi, ci passano davanti agli occhi, procedendo a ritmo di inchiesta; un puzzle viscoso, costruito per fatti, nessuno spazio per possibili interpretazioni. Così il regista riesce a creare una storia asciutta e poetica, dove la presa di coscienza di vivere in stato di guerra perenne, in una zona di confine (FortApasc, appunto), avviene gradualmente come in una catarsi collettiva attraverso le parole di un curioso osservatore, che diventa l’unico esempio possibile di redenzione. Siani non è un eroe è solo un comunissimo ragazzo che fa quello che ama fare e che sa fare meglio: informare. Non fugge, non si nasconde, non si lamenta mai, rimane radicato alla sua terra per raccontarla al meglio possibile a chi non la conosce ed anche a chi ci vive ma non si rende conto. Non può fuggire nè lamentarsi perchè è più forte di lui, non potrebbe esistere in modo diverso. La redenzione, però, non sempre si vuole, la redenzione è spesso scomoda e faticosa, perchè prima bisogna ammettere di aver sbagliato, ma un sistema che si pone come Stato alternativo fondato su regole proprie, difficilmente ammette qualcosa, si limita a preservarsi cristallizzato così come è, a qualunque costo! La redenzione che propone Siani sembra, dunque, sin dall’inizio, una lotta contro i mulini a vento, un Davide che scaglia pietruzze contro il gigantesco Golia. Questo giovane, impulsivo, appassionato, precario a tratti incosciente sa quello che è giusto e consapevolmente, come una spada, affonda il colpo, anche lui a qualunque costo.
Attraverso gli occhi del protagonista riflettiamo su una realtà che apparentemente non ci tange, ma nella quale siamo invischiati anche noi, perchè potenzialmente siamo tutti Siani nella scelta del prendere posizione e di vivere una vita veramente informata e consapevole. Ci si interroga sul paese, sulla sua classe politica, sulla magistratura e sull’informazione, ognuno gioca un ruolo a sè stante ma collegato agli altri. Si arriva, così serenamente, ad ammettere che l’Italia non è un paese per giornalisti-giornalisti, è un paese per giornalisti- impiegati, come a dire che è il sistema stesso a non volere libertà: chi è troppo libero, anche se nel giusto, paga ... paga con la vita, paga con il non poter avere una casa, una famiglia, un cane, una vita normale insomma, perchè semplicemente viene fatto sparire (Attenzione al dialogo con il redattore capo della sede distaccata del Mattino a Torre Annunziata).
Il film scivola via e senza accorgercene siamo già all’epilogo che conosciamo, ma che non vorremmo fosse vero.
Le luci si riaccendono, la platea intera è gelata, il loro sangue come il mio si è fermato, l’ultima immagine che abbiamo negli occhi è quella del vero Giancarlo con la faccia dipinta di bianco e sulla guancia il simbolo della pace, forse durante una delle tante manifestazioni di operai organizzati alle quali aveva preso parte. Un ragazzo, non era che questo. Uno che con le sue sole forze e senza abbandonare il campo ha sempre continuato a cercare la verità e per quella ricerca è morto. Uscita dal cinema non posso fare a meno che pensare... “Infondo quello era il 1985, ne sono cambiate di cose, molti boss oggi sono in galera e la stampa nazionale non si spertica a raccontare di mafia così spesso! Vorrà dire che le cose non stanno più così!”... Poi rinsavisco e mi viene in mente il caso Saviano...Saviano che se messo a confronto con Siani mostra tutto il suo limite divistico e me lo fa apparire più per uno scrittore-venditore, che per un giornalista. Non è questo che importa, non è la mutazione genetica dell’informazione a preoccuparmi (per lo meno non in toto) è la consapevolezza di vedere che le cose non cambiano, che non si può mai abbassare la guardia! Mi viene in mente su cosa gioca questa gente: sull’omertà, sull’agire sottobanco tenendo sotto controllo chi effettivamente li traduce per come sono, senza accarezzarli e compiacerli ed allora mi assale la paura come quella dell’Uomo nero, una presenza che si muove nel buio ma che non puoi toccare o vedere se non per gli effetti di terrore che produce.

1 commento:

Artax ha detto...

Gran bella recensione. Piena di spunti. Così su due piedi, dopo una rapida lettura e a bruciapelo, mi viene da incuriosirmi su un elemento solo indirettamente toccato: la staticità. E' possibile che una società si basi su dei cardini tali da non permettere che essa stessa muti? E' possibile che in 150 anni le mafie abbiano garantito il proprio metodo, così poco è mutata la società?
Alzo il tiro: sono le mafie una allegoria radicale delle limitatezze che le politiche di singole nazioni e di un sistema globale contengono nel percorso troppo parallelo tra democrazia e mercato capitalistico?
Un politologo diretto mi risponderebbe probabilmente che è la "forza" dello Stato a limitare i pericoli di queste situazioni, ma saprebbe rispondermi sul serio, cioè congruamente e in modo da non sconfessare la validità della sua affermazione, se io chiedessi che cos'è la forza di uno stato?