domenica 29 novembre 2009

Storia di un impiegato, n.3


Sogno numero due

Imputato ascolta,
noi ti abbiamo ascoltato.
Tu non sapevi di avere una coscienza al fosforo
piantata tra l'aorta e l'intenzione,
noi ti abbiamo osservato
dal primo battere del cuore
fino ai ritmi più brevi
dell'ultima emozione
quando uccidevi,
favorendo il potere
i soci vitalizi del potere
ammucchiati in discesa
a difesa della loro celebrazione.
E se tu la credevi vendetta
il fosforo di guardia
segnalava la tua urgenza di potere
mentre ti emozionavi nel ruolo più eccitante della legge
quello che non protegge
la parte del boia.
Imputato,
il dito più lungo della tua mano
è il medio
quello della mia
è l'indice,
eppure anche tu hai giudicato.
Hai assolto e hai condannato
al di sopra di me,
ma al di sopra di me,
per quello che hai fatto,
per come lo hai rinnovato,
il potere ti è grato.
Ascolta
una volta un giudice come me
giudicò chi gli aveva dettato la legge:
prima cambiarono il giudice
e subito dopo
la legge.
Oggi, un giudice come me,
lo chiede al potere se può giudicare.
Tu sei il potere.
Vuoi essere giudicato?
Vuoi essere assolto o condannato?

Appare subito chiaro, che il sogno come per una anticipazione, mostra all'impiegato un processo nel quale lui è imputato come bombarolo. Le caratteristiche del sogno mettono in scena anche la capacità di analisi del protagonista come funzione narrativa usata da De André per impostare un discorso intorno al ruolo che ogni pedina di un gioco di questo tipo assume, ovvero un gioco di potere dove ogni azione veicola una volontà e di conseguenza un potere. E' così che avviene un nuovo ribaltamento, il giudice funzionario del potere, mostra all'impiegato come con il suo gesto non fa che assumere su di sé il potere che vuole scardinare, poiché il potere è una proprietà interna all'atto, è la potenza e un atto violento che vuole rinnovare colpendo alla base la società, nei suoi valori, assume su di sé il potere di farlo. Affascinante il finale, in cui poiché si è all'interno di una situazione onirica e quindi ancora nel groviglio inconscio del protagonista, viene a delinearsi l'ambiguità di una posizione estrema e emarginante, che prevede ancora un bivio che l'impiegato dà a se stesso tra la propria “salvezza” e la propria “condanna”.


Canzone del padre

-Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi
solo i sogni che non fanno svegliare.-
-Sì, Vostro Onore, ma li voglio più grandi.-
-C'è lì un posto, lo ha lasciato tuo padre.
Non dovrai che restare sul ponte
e guardare le altre navi passare
le più piccole dirigile al fiume
le più grandi sanno già dove andare.-
Così son diventato mio padre
ucciso in un sogno precedente
il tribunale mi ha dato fiducia
assoluzione e delitto lo stesso movente.
E ora Berto, figlio della lavandaia,
compagno di scuola, preferisce imparare
a contare sulle antenne dei grilli
non usa mai bolle di sapone per giocare;
seppelliva sua madre in un cimitero di lavatrici
avvolta in un lenzuolo quasi come gli eroi;
si fermò un attimo per suggerire a dio
di continuare a farsi i fatti suoi
e scappò via con la paura di arrugginire
il giornale di ieri lo dà morto arrugginito,
i becchini ne raccolgono spesso
fra la gente che si lascia piovere addosso.
Ho investito il denaro e gli affetti
banca e famiglia danno rendite sicure,
con mia moglie si discute l'amore
ci sono distanze, non ci sono paure,
ma ogni notte lei mi si arrende più tardi
vengono uomini, ce n'è uno più magro,
ha una valigia e due passaporti,
lei ha gli occhi di una donna che pago.
Commissario io ti pago per questo,
lei ha gli occhi di una donna che è mia,
l'uomo magro ha le mani occupate,
una valigia di ciondoli, un foglio di via.
Non ha più la faccia del suo primo hashish
è il mio ultimo figlio, il meno voluto,
ha pochi stracci dove inciampare
non gli importa di alzarsi, neppure quando è caduto:
e i miei alibi prendono fuoco
il Guttuso ancora da autenticare
adesso le fiamme mi avvolgono il letto
questi i sogni che non fanno svegliare.
Vostro Onore, sei un figlio di troia,
mi sveglio ancora e mi sveglio sudato,
ora aspettami fuori dal sogno
ci vedremo davvero,
io ricomincio da capo.

Come per un improvviso tentativo di reimmersione, piuttosto che uscire dalla situazione onirica e ripiombarci nella realtà dei fatti della storia, De André ci spinge fino al fondo più oscuro del groviglio interiore dell'impiegato. La canzone del padre fa luce sulle paure, sugli elementi costitutivi e sulle immagini ossessive che dipingono una presunta vita futura, legata a quella realtà vissuta da piccolo borghese con il suo piccolo lavoro da impiegato. E' così che la voce interiore del giudice chiede “Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi solo i sogni che non fanno svegliare?”, ossia vuoi che la tua coscienza e con essa il tuo Ego, giunga alla verità, ai fatti di una vita da cui non ci si sveglia. L'avere occhi più grandi, significa certo essere più consapevoli, ma anche avere un ruolo maggiore, un potere maggiore, una autorità. L'autorità che sia del padre di educare i propri figli alle regole della società, ai suoi valori. L'autorità di un buon posto di lavoro, che perpetua le dinamiche su cui si basa una società, soprattutto dal punto di vista economico, da cui dipende spesso il resto. Così “le navi” sono tutto ciò su cui si ha un'influenza. Prendere il posto del padre, perpetuare una esperienza statica, all'interno dell'inconscio edipico “il tribunale mi ha dato fiducia assoluzione e delitto lo stesso movente”, ossia il delitto dell' “uccisione del padre” che rappresenta il potere mosso dal raggiungimento del suo ruolo e l'assoluzione per averlo ottenuto. Il parallelismo quindi tra l'autorità paterna e quella dello stato ha un determinato valore nello sviluppo del testo, il dilemma si muove da un ambito antropologico ad uno più strettamente storico e si aggrappa ad immagini legate al passato dell'impiegato e ad un eventuale futuro. L'illusione della realizzazione che si instaura su situazioni fatte di “alibi”, dati a se stesso per giustificare la meschinità dietro i rapporti che vengono evocati: Berto vecchio compagno di scuola, figura del ricordo che da un lato rappresenta l'emarginazione e il rifiuto degli schemi prestabiliti, dall'altro una bassa estrazione sociale che non ha vie d'uscita e ricade nella propria disfatta. Una moglie che ha la doppia sembianza metaforica di compagna e prostituta, come a dichiarare la malattia di una relazione coniugale basata sulla soddisfazione del reciproco interesse, così che agli occhi dell'impiegato lei si trasforma oppure forse la prostituta che frequenta gli appare più “moglie” della moglie stessa, tanto da affermare “lei ha gli occhi di una donna che è mia”, ma che appartiene al pappone di turno; descritto come un forestiero con “un foglio di via”, per metterlo in relazione alle strutture del potere statale che gestiscono le cose attraverso le leggi oltre che per colorare la bassezza dell'ambientazione. Infine il rapporto filiale, anch'esso destinato al fallimento dove il figlio appare un “reietto della vita”, abbandonato a se stesso “non gli importa di alzarsi neppure quando è caduto”.
Questi sogni realizzati dal giudice noumenico e satanico nella tentazione del potere concesso, vengono immediatamente rifiutati con una “bomba in testa” che “mette fuoco agli alibi”, alle giustificazioni ipocrite che il protagonista dà a se stesso per quella vita che ha potuto vivere in sogno. Alla fine del sogno la sua scelta non potrà essere altra che di rottura, distruttiva.

mercoledì 25 novembre 2009

Storia di un impiegato, n.2





La bomba in testa


...e io contavo i denti ai francobolli
dicevo "grazie a dio" "buon natale"
mi sentivo normale
eppure i miei trent'anni
erano pochi più dei loro
ma non importa adesso torno al lavoro.
Cantavano il disordine dei sogni
gli ingrati del benessere francese
e non davan l'idea
di denunciare uomini al balcone
di un solo maggio, di un unico paese,
e io la faccia usata dal buonsenso
ripeto "non vogliamoci del male"
e non mi sento normale
e mi sorprendo ancora
a misurarmi su di loro
e adesso è tardi, adesso torno al lavoro.
Rischiavano la strada e per un uomo
ci vuole pure un senso a sopportare
di poter sanguinare
e il senso non dev'essere rischiare
ma forse non voler più sopportare.
Chissà cosa si prova a liberare
la fiducia nelle proprie tentazioni,
allontanare gli intrusi
dalle nostre emozioni,
allontanarli in tempo
e prima di trovarti solo
con la paura di non tornare al lavoro.
Rischiare libertà strada per strada,
scordarsi le rotaie verso casa,
io ne valgo la pena,
per arrivare ad incontrar la gente
senza dovermi fingere innocente.
Mi sforzo di ripetermi con loro
e più l'idea va dì là del vetro
più mi lasciano indietro,
per il coraggio insieme
non so le regole del gioco
senza la mia paura mi fido poco.
Ormai sono in ritardo per gli amici
per l'odio potrei farcela da solo
illuminando al tritolo
chi ha la faccia e mostra solo il viso
sempre gradevole, sempre più impreciso.
E l'esplosivo spacca, taglia, fruga
tra gli ospiti di un ballo mascherato,
io mi sono invitato
a rilevar l'impronta
dietro ogni maschera che salta
e a non aver pietà per la mia prima volta.

Se questo è certamente un album politico, allo stesso tempo è certamente una delle più innovative forme di narrazione tentate attraverso la canzone, almeno nel panorama italiano. La Bomba in testa apre a ventaglio il dipanarsi dei pensieri dell'impiegato, in un altalenarsi di istintività, ossessione e repressione della propria volontà. Crea ampi scorci sui dubbi che attanagliano l'impiegato e allo stesso tempo ci trascina lungo la linea narrativa, portando avanti la storia. Subito viene presentato un elemento chiave della narrazione nel titolo: la bomba, inserito metaforicamente a significare una confusione di pensieri, ma anche rivelato come elemento attivo nell'intreccio al termine del testo della canzone. Lo stile narrativo di De André è tutto votato alla concisione, anche per i limiti strutturali della canzone, ma ne viene fuori una profondità di espressione difficilmente raggiungibile. Cosicché ad esempio con “Chissà cosa si prova a liberare la fiducia nelle proprie tentazioni, allontanare gli intrusi dalle nostre emozioni, allontanarli in tempo e prima di trovarti solo con la paura di non tornare al lavoro.”, delinea il quadro di un'interiorità complessa, affrontando temi di profondità e spessore, dove gli “intrusi delle emozioni” con un secco richiamo freudiano, presente in tutto l'album, non sono altro che le forze repressive del Super-ego, quelle assunzioni formali dell'interiorità che si sono sviluppate secondo l'educazione derivata dalla propria formazione, dalla società, dalla cultura. Il protagonista manifesta una coscienza della contraddizione tra i propri pensieri e l'aridità della sola “paura di perdere il lavoro”, continuando a “misurare” ciò di cui sempre più diviene consapevole a ciò che trova nei giovani contestatori. In questo modo il tema della contestazione, può raggiungere il valore più alto del proprio messaggio e del ruolo storico che ha avuto, perché è messo in scena il percorso che da una coscienza individuale parte fino a trasformarsi in collettività e all'inverso. Ma non è questo il solo tema dell'album, la storia continua e muta. L'impiegato non partecipa alla contestazione, ma “partecipa” alla reazione alla propria frustrazione, non assume nessuna coscienza collettiva, non diviene parte di un movimento ma resta chiuso nella propria individualità “Mi sforzo di ripetermi con loro e più l'idea va dì là del vetro più mi lasciano indietro, per il coraggio insieme non so le regole del gioco senza la mia paura mi fido poco. Ormai sono in ritardo per gli amici per l'odio potrei farcela da solo illuminando al tritolo chi ha la faccia e mostra solo il viso sempre gradevole, sempre più impreciso.”. Sta diventando appunto un bombarolo, alimentando il proprio odio con tutta l'ambiguità di un gesto masochistico, come se il sadismo porti con sé sempre una componente autolesionistica. La distruzione non è cristallizzata in una mera rivalsa, ma è già rigenerazione, perché manifesta il proprio lato creativo. Tutto ciò è possibile pensarlo in quanto quello che l'impiegato vuole far saltare in aria sono le ipocrisie fondanti la cultura stessa che lo ha cresciuto anch'egli finora ipocrita, la propria. Colta e straordinaria per l'utilizzo che De André ne fa, la metafora lunga delle maschere e del viso: per cui i disvalori della sopraffazione e della repressione, sono la “faccia” che i componenti della società “mascherano” come in un “ballo mascherato”, in questo c'è anche un sottile richiamo alla ripetitività dei gesti e delle situazioni in un rapporto di potere, dove le “maschere” sono gli illustri personaggi a cui i buoni valori sono collegati (es. Cristo e la Bontà). L' “impronta” della verità è lasciata dalle “facce” sulle “maschere” e il protagonista vuole “rilevare” e rivelare quell'impronta, facendo “saltare” le maschere. Da qui nasce la quarta canzone, che prosegue la metafora, nella quale viene mostrato l'uso ipocrita che si fa di ogni personaggio-maschera in una complessa costruzione di rapporti tra le varie celebrità-simbolo.


Al ballo mascherato delle celebrità

Cristo drogato da troppe sconfitte
cede alla complicità
di Nobel che gli espone la praticità
di un eventuale premio della bontà.
Maria ignorata da un Edipo ormai scaltro
mima una sua nostalgia di natività,
io con la mia bomba porto la novità,
la bomba che debutta in società,
al ballo mascherato della celebrità.
Dante alla porta di Paolo e Francesca
spia chi fa meglio di lui:
lì dietro si racconta un amore normale
ma lui saprà poi renderlo tanto geniale.
E il viaggio all'inferno ora fallo da solo
con l'ultima invidia lasciata là sotto un lenzuolo,
sorpresa sulla porta d'una felicità
la bomba ha risparmiato la normalità,
al ballo mascherato della celebrità.
La bomba non ha una natura gentile
ma spinta da imparzialità
sconvolge l'improbabile intimità
di un'apparente statua della Pietà.
Grimilde di Manhattan, statua della libertà,
adesso non ha più rivali la tua vanità
e il gioco dello specchio non si ripeterà
"sono più bella io o la statua della Pietà"
dopo il ballo mascherato della celebrità.
Nelson strappato al suo carnevale
rincorre la sua identità
e cerca la sua maschera, l'orgoglio, lo stile,
impegnati sempre a vincere e mai a morire.
Poi dalla feluca ormai a brandelli
tenta di estrarre il coniglio della sua Trafalgar
e nella sua agonia, sparsa di qua, di là,
implora una Sant'Elena anche in comproprietà,
al ballo mascherato della celebrità.
Mio padre pretende aspirina ed affetto
e inciampa nella sua autorità,
affida a una vestaglia il suo ultimo ruolo
ma lui esplode dopo, prima il suo decoro.
Mia madre si approva in frantumi di specchio,
dovrebbe accettare la bomba con serenità,
il martirio è il suo mestiere, la sua vanità,
ma ora accetta di morire soltanto a metà,
la sua parte ancora viva le fa tanta pietà,
al ballo mascherato della celebrità.
Qualcuno ha lasciato la luna nel bagno
accesa soltanto a metà
quel poco che mi basta per contare i caduti,
stupirmi della loro fragilità,
e adesso puoi togliermi i piedi dal collo
amico che mi hai insegnato il "come si fa"
se no ti porto indietro di qualche minuto
ti metto a conversare, ti ci metto seduto
tra Nelson e la statua della Pietà,
al ballo mascherato della celebrità.

In un ripetersi di nomi che fondano gran parte della cultura occidentale, si assiste ad un vero e proprio, ma complesso, ribaltamento dei valori che ogni personaggio simboleggia. Un ribaltamento che ha più la forma di una sconfessione e di uno svelamento. Cosicché il Cristo della bontà viene descritto con accenti masochistici e il sacrificio assume valore solo in relazione alla gloria/fama che ne deriva, ricadendo così nei meccanismi di vittimismo buonista attraverso la relazione con il bisogno per la società contemporanea di un premio alla bontà (pace) indetto da Nobel (più “pratico” di un intero Nuovo Testamento?!). La madonna viene descritta calcando l'accento sulla morbosità del rapporto materno rapportato all'Edipo freudiano, sembra quasi vittima di una “gravidanza isterica” cercando drammaticamente il suo figlio\Edipo che si nega poiché “ormai scaltro”, ossia consapevole del suo essere figlio e amante. Così vengono minati i valori della famiglia e della solidarietà sociale. Dante, simbolo della cultura e dell'arte, in realtà è chi incapace di vivere un amore lo spia e lo racconta straordinario, ma in verità era un “amore normale”, diviene così manifesta la menzogna prodotta in risposta alle proprie debolezze. Nelle successive due strofe, De André inserisce una parola chiave per la sua poetica: “pietà” (“nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l'amore”, da Testamento di Tito). Sembra dire che la Libertà, che simboleggiata dalla Statua della Libertà in America, pare essere più che altro sinonimo di liberismo, dopo la bomba che smaschera i valori, resterà la sola, svelando quindi una società fondata sul proprio tornaconto e non sulla pietà umana, simboleggiata dalla “pietà” michelangiolesca: sublimazione di un amore materno verso il proprio figlio morto, che si fa amore universale verso il proprio Dio morto resuscitato per la salvezza, espressione di un sentimento complesso di difficile spiegazione. Con la figura di Nelson, pare si voglia colpire la vanagloria di tipo patriottico che è nascosta dietro ai personaggi storici e al loro ricordo e l'opposizione che nasce tra l'individuo e le necessità di una collettività quando sono in gioco falsi valori: “impegnati sempre a vincere ma mai a morire”, così che la vittoria di Trafalgar in cui Nelson morì sarebbe stata certo scambiata con un sconfitta e la prigionia a Sant'Elena dall'ammiraglio. Nelle successive strofe si passa ad una descrizione più intimista, entrano in gioco i genitori dell'impiegato, anche loro come gli altri personaggi veicolano valori e rappresentano l'educazione, l'autorità, il Super-ego. Il padre che pretende, come per debito di discendenza, le cure materiali e l'affetto indipendentemente da ciò che significa il suo essere padre, la piccola e meschina realtà da perpetuare che porta in dono al figlio insieme ad un “decoro” che maschera in realtà remissività e rassegnazione. Così come la madre che rincorre il modello femminile imposto, cercando gratificazione nel conformismo legato all'esteriorità, finendo per avere pietà della parte di sé soffocata che è rimasta “viva” dopo l'esplosione; la vanità era il suo martirio, la sua morte che la rendeva una bella vittima. Da qui in poi entra in scena l'io del protagonista, che sembra dichiarare di stare sognando o di essere in una situazione tra la veglia e il sogno, attraverso immagini accostate come la “luna” e il “bagno” in un tipico meccanismo onirico, ipotesi presumibile per il fatto che la canzone successiva si intitola Sogno numero due. Il protagonista dichiara di sentirsi spinto, sente la pressione nel suo agire (“e adesso puoi togliermi i piedi dal collo amico che mi hai insegnato il "come si fa"), ma è probabilmente una pressione legata alla totalità degli eventi, dove l'”amico” indica certo anche il movimento di contestazione, come era stato in La bomba in testa. In questo passaggio si può appunto notare come qualsiasi forma di autorità, compresa quella anti-autorità, può essere messa tra le maschere, proprio tra “Nelson” simbolo di un potere militare e politico e la “pietà” simbolo della solidarietà umana (per questo “amico”) che però viene colpita anch'essa da una bomba che “non ha una natura gentile” ed è “spinta da imparzialità”.
Si conclude così la prima canzone-viaggio nel mondo onirico dell'impiegato, che elabora inconsciamente il mutamento della sua coscienza verso quella che veniva chiamata “coscienza politica”, ma che è immersa necessariamente nel magma dell'interiorità dell'individuo.

martedì 24 novembre 2009

Storia di un impiegato, De André (1973)



























Provo un tentativo di interpretazione dei testi, di uno dei concept album di Fabrizio De Andrè, con la convinzione di trovarmi di fronte ad una delle opere più rappresentative del decennio 73-83, ovvero di quelli che furono chiamati "anni di piombo".
Scriverò un post ogni due canzoni massimo, per agevolare la lettura.

L'album pare sia stato rinnegato dallo stesso autore, in quanto troppo dichiaratamente politico, credo però che a distanza di anni la chiara professione politica sia stata un elemento chiave per narrare con spessore e profondità il periodo, aggiungendo un valore di testimonianza e partecipazione.



Introduzione


"Lottavano così come si gioca ”, ovvero riconoscevano in se stessi una forza che spingeva tutti e che non era semplicemente assunta, ma che piuttosto sembrava una propensione, che quindi prendeva a colorarsi di una creatività, di un'estetica, profonda. Per questo accostabile al gioco, per la sua energia di immaginazione, per la sua capacità visionaria di trasformare la realtà.
Questo è possibile leggere nel solo primo verso di Storia di un impiegato (1973), certo intuendo il contesto che poi si verrà precisando con il secondo verso: “i cuccioli del maggio era normale”. Eppure al termine di Introduzione, prima traccia del concept album, è già tutto connotato diversamente. Fabrizio De André ha sì tracciato con una sola pennellata tutto il paesaggio sessantottesco, ma non solo, ha fatto molto altro, ha immediatamente immerso nella cattiva coscienza del protagonista, che poi si capirà essere un impiegato, l'ascoltatore.

Lottavano così come si gioca
i cuccioli del maggio era normale
loro avevano il tempo anche per la galera
ad aspettarli fuori rimaneva
la stessa rabbia la stessa primavera

Improvvisamente, quindi, veniamo calati nel punto di vista dell'impiegato, al quale con un gioco finissimo vengono messe in bocca o in testa le parole che perfettamente potrebbero descrivere il movimento sessantottesco, ma che dette o pensate con una accezione negativa vogliono più che altro addurre una giustificazione alla remissività del protagonista.
Lui non ritroverebbe la “primavera” della vita, né la stessa forza interiore d'istintività propria della gioventù, se fosse portato in carcere come eversivo, quindi resta a guardare. Ancora un sottilissimo gioco narrativo, con l'inserimento di “rabbia” sia si connota positivamente come “forza di protesta, che parte da una istintività propria della gioventù” quella dei "cuccioli" del maggio, sia si descrive la paura-consapevolezza dell'impiegato della propria inettitudine che è come un vuoto morale.


Canzone del maggio

Anche se il nostro maggio
ha fatto a meno del vostro coraggio
se la paura di guardare
vi ha fatto chinare il mento
se il fuoco ha risparmiato
le vostre millecento
anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.
E se vi siete detti
non sta succedendo niente,
le fabbriche riapriranno,
arresteranno qualche studente
convinti che fosse un gioco
a cui avremmo giocato poco
provate pure a credervi assolti
siete lo stesso coinvolti.
Anche se avete chiuso
le vostre porte sul nostro muso
la notte che le "pantere"
ci mordevano il sedere
lasciandoci in buonafede
massacrare sui marciapiede
anche se ora ve ne fregate,
voi quella notte voi c'eravate.
E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate
senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone
le "verità" della televisione
anche se allora vi siete assolti
siete lo stesso coinvolti.
E se credete ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti..

Grado zero della narrazione. Scompare il punto di vista dell'impiegato, cosicché la canzone possa fare da connettore a più livelli: si potrebbe ritenerla l'oggetto fisico, ovvero la canzone effettiva che si cantava per le strade durante quel periodo, che simboleggia tutto l'imporsi delle vicende agli occhi dell'impiegato con la loro pregnanza e evidenza violenta. Unisce quindi sintatticamente Introduzione a La bomba in testa (terza traccia dell'albuma) come una congiunzione (elemento fisico, significante) e anche tematicamente, in La bomba in testa infatti si ritorna all'interno del punto di vista dell'impiegato.
Il canto porta l'evidenza dell'ipocrisia piccolo borghese con una violenza espressiva rivolta direttamente alle orecchie di ascolta, allegoricamente noi, ma letteralmente l'impiegato.
Il rapporto tra "l'essere assolto" e "l'essere coinvolto" si diramerà in tutto l'album, come una profezia da cui non si ha la possibilità di liberarsi, ma che richiedendo una risposta trasforma la reazione in ossessione, introducendo un incredibile spessore psicologico nell'intero discorso.

P.S. A Caddu che parlando di De André, mi ha fatto venir voglia di scriverne.

martedì 17 novembre 2009

Recensione: LO SPAZIO BIANCO


Ormai è passata qualche settimana da quando ho visto Lo spazio bianco, eppure le emozioni che mi ha suscitato questa pellicola sono vivide e persistenti come le immagini che la compongono. Non voglio raccontare di cosa parla il film ma solo dare un parere, uno scorcio di cosa il cinema può; l'intimità che Francesca Comencini riesce a trasmettere allo spettatore che guarda scorrere davanti lo schermo la storia personalissima di una donna alle prese con una gravidanza inaspettata e pergiunta prematura è impareggiabile. Ci si sente quasi degli spettatori indiscreti, imbarazzati davanti alla sincerità che esprime ogni respiro della protagonista, ci verrebbe da chiedere scusa allo schermo e ringraziare defilandoci. Non solo le sensazioni fanno di questo film, a mio avviso un bel film, lo è anche perchè è sorretto dalla attrice italiana contemporanea esageratamente migliore di ogni altra (Margherita Buy) e accompagnato da una elegante fotografia di Luca Bigazzi; la colonna sonora risulta raffinata e azzaccatissima con brani di Nina Simone, Ella Fitzgerald, Lali Puna e Cat Power solo per citarne alcuni, ma anche Blondie e molti altri, insomma un gran bel contorno. Detto questo non voglio aggingere altra carne al fuoco, ma solo consigliare a tutti una buona visione e di lasciarvi trasportare dentro la vita di questa eroina moderna, parleremo poi, qui, dei pareri specifici sul film per chi lo vorrà...

martedì 3 novembre 2009

Rubrica: Edvard Munch, Pubertà



Appendo alla parete un'immagine che difficilmente riuscirò a slegare dall'influenza che ha nel caratterizzare il resto; in questo caso la pagina, il blu dello sfondo, il colore del testo, lo schermo, il mio portatile, l'ora del giorno o della notte...
Non è che in questo momento mi senta molto propenso a confidenze, così forse il tono è piuttosto un'inclinazione suggerita, una suggestione, che un imbonimento. Un po' nello stesso modo in cui l'intimità del quadro di Munch è già, dal momento in cui nasce alla sensibilità, accompagnata dal suo negativo, da una degradazione. Se si volesse descrivere Pubertà in ciò che raffigura si parlerebbe di un nudo, in particolare di un'adolescente nuda seduta su un letto spoglio, all'interno di una stanza altrettanto spoglia e si potrebbe dire, non erroneamente, che l'insieme di queste caratteristiche nella loro osmosi produce la sensazione di degrado e di nausea nell'immagine, come nel tentativo di mostrare l'interiorità della ragazza, di definirla. Allo stesso modo ad aumentare quest'impressione, oltre al tratto caratteristico di Munch e al suo cromatismo, contribuisce la densità iconica che l'ombra della figura femminile ha rispetto al resto degli elementi. Questa ombra letteralmente "incombe" su di lei, presagio di morte forse, certamente della sua presenza fatalistica o metaforica, ma anche dell'esistenza esasperata di una presenza. Spesso nei quadri di Munch le presenze, di qualsiasi natura esse siano, de-formano l'ambiente che le contiene attraverso tutta la loro esistenza, spesso aggiungendo sostanza alla loro figura per mostrare uno stato interiore. L'interiorità altera la realtà e Munch la dipinge.
Ciò che però mi ha portato a scegliere in particolare Pubertà, non è il fatto di preferirla per gusto ad altri suoi dipinti, piuttosto è una riflessione intorno allo sguardo, che credo mi abbia aiutato a capire di più questo artista. A seconda del quadro di Munch che si ha sotto gli occhi, è più o meno semplice affermare se sia l'interiorità dei personaggi ritratti o quella del pittore ad alterare la realtà in cui i personaggi sono immersi. Ovvero se sia una interpretazione o una visione di Munch a far nascere l'immagine.
Accostando Pubertà ad altri nudi, come quelli di Tiziano, di Goya o di Manet, si potrebbe quasi affermare che il soggetto del dipinto si sposti dalla figura rappresentata all'intenzionalità della rappresentazione o se si vuole dello sguardo. In Tiziano, in Goya o Manet, sebbene in modo molto diverso, la rappresentazione di nudi pare coniugare l'intenzionalità dello sguardo dell'artista che propriamente "sveste" la realtà svelando la costante brama del suo sguardo che deve raggiungere sempre più a fondo l'immagine che ritrae per poterla rappresentare, alla figura rappresentata, che essendo un nudo simboleggia maliziosamente tale sguardo. L'artista rinnova e ci mostra il nostro nuovo modo di guardare, che è un tentativo costante di svelare e nasconde una bramosia conoscitiva con forti accenti sessuali. Ma Munch in Pubertà fa un passo ulteriore, non è più una giovane donna piacente a essere ritratta nella sua floridezza, ma un'adolescente o forse ancor più la sua pubertà, ossia il periodo di trasformazione del suo corpo e la trasformazione interiore che ne consegue. E' il gesto ad avere un valore ancor più rivelatore rispetto ai suoi predecessori, visto che le mani giunte a nascondere il proprio sesso e la postura complessiva della ragazza esprimono la sua consapevolezza e il suo sguardo paura, perplessità e fragilità. Di conseguenza la malizia simbolica del nudo, non sta più solo a simboleggiare l'intenzionalità possessiva dello sguardo dell'artista (così come dello spettatore/società) che rimane presente nella sua forza, ma anche la consapevolezza del soggetto ritratto di poter essere oggetto di desiderio e possesso, di star subendo una trasformazione che assume su di sé la propria ambiguità. E' così che a divenire soggetto del dipinto è propriamente la reciprocità di sguardi tra l'artista/spettatore e la ragazza pubescente che perpetuamente continua a realizzarsi ad ogni visione del quadro, dimostrando l'incredibile novità di Munch.
Seguendo questa interpretazione è interessante notare come aumenti la drammaticità del quadro inserendovi la lettura dei temi topici di Munch: la morte, l'angoscia, il dolore.
L'artista traducendo in opera la reciprocità degli sguardi tra lo spettatore e la figura rappresentata può enfatizzare la drammatica dicotomia di Eros e Thantos, a lui cara, dove l'erotismo incastrato nell'intenzionalità dello sguardo dello spettatore si scontra con la consapevolezza di un mutamento del corpo, che più che richiamare la nascita è già annuncio di caducità, di transitorietà, il tempo agisce sul corpo. Il sentimento di morte è evidente per lo spettatore che lo vive in relazione all'erotismo evocato ed è solo un presagio sul viso emaciato della pubescente, un'ombra che incombe, minacciosa per lo spettatore stesso nel suo protendersi. La coscienza della morte, l'angoscia Kirkegaardiana, corre così sullo sguardo dello spettatore verso la sua interiorità, come dall'interiorità di Munch aveva portato a trasformare quell'immagine nel suo dipinto.