mercoledì 8 aprile 2009

Il richiamo di Lighea...La risposta di Zingaretti

Le mani si muovono, ipnotiche disegnano cerchi, fendendo il buio con la rude eleganza di ampi gesti. Tutto un corpo al servizio del racconto. Luca Zingaretti è un prestigiatore, non ho dubbi, calca un metro quadro di palcoscenico costretto dalla staticità di un leggìo, ma è come se lo possedesse per intero. Calamita lo spettatore non c’è che da togliersi il cappello.
L’attore non è che un veicolo e più è bravo, più sa farsi modestamente da parte, sciogliendosi, lasciandosi possedere dal personaggio, o dai personaggi come nel caso di una lettura. Una voce e un corpo concreto si materializzano per personalità che esistono solo sulla pagina.
Con lo spettacolo La Sirena, abbiamo l’occasione di tornare bambini. Bramosi ed attenti, è così che ci vuole il buon istrione, per permetterci di scivolare in una favola, che come nelle migliori tradizioni non ha nulla di infantile, all’infuori del gusto per il magnifico. Tomasi di Lampedusa ritrova l’occasione per ricordare malinconicamente la sua terra, una Sicilia incantata ed ipnotica raccontata nostalgicamente da chi vi è nato e vi ha educato i sensi, che a distanza di decenni non dimenticano la prepotenza archetipica dei sapori e profumi di quella premurosa e carnale madre.
Il racconto Lighea, fu l’ultimo scritto dall’autore, pochi mesi prima di morire per malattia; può essere visto, dunque, come una estrema dichiarazione della propria visione del mondo, il che giustifica anche un ritorno alla giovinezza, al ricordo dell’età dell’oro.
La storia viene costruita su due livelli di narrazione, l’uno a fare da cornice all’altro. Il narratore è un giovane e distinto giornalista, ultimo discendente dei Corbera di Salina. Un uomo azzimato e tutto proteso alla conquista anche simultanea di più “tote”, che ovviamente scoprendo la sua natura da conquistatore lo hanno ridotto ad una prostrazione misantropica, dovuta alle ferite al proprio fragile ego maschile.
Siamo nell’urbanissima e composta Torino del 1938, lo scenario è un pigro e decadente caffè di via Po, definito a più riprese “Erebo spettrale” o “Ade popolato di larve”, un non luogo, dove ognuno sosta convinto di rimanere nella sua solinga tranquillità. Qui il redattore, viene affascinato da un avventore abituale, che sin dall’inizio è presentato come strano, sporco e dalle poco ortodosse abitudini, inavvicinabile nella sua assorta contemplazione di riviste archeologiche. Un vecchio intabarrato, sgualcito, elegante nel suo genere, ma ormai logoro dal tempo come il cappotto che indossa, capace di dimostrare umanità solo dinnanzi alla beffarda bellezza di statue arcaiche (non posso evitare di pensare a Jules e Jim!). Con il tempo, serata dopo serata, il protagonista prende informazioni, scoprendo che quell’ometto grifagno in realtà è un notabile della città, uno stimato grecista, famoso in tutte le università del continente. La curiosità, per i suoi modi bruschi lo porterà ad avvicinarsi e a scoprirlo suo conterraneo. Da questo amore comune nascerà una amicizia, scandita a ritmo di iniziazione sensuale; come in un crescendo veniamo trascinati sempre più a fondo, perdendoci negli abissi, rimanendo quasi senz’aria, per scoprire le origini della visione del mondo del misantropo professore... Colui che non può più amare niente di umano, nessun sentimento, nessuna sensazione, poichè li ha conosciuti allo stato puro, incontaminati, prepotenti, di divina e cruda ascendenza. Come sopravvivere ad un mondo sottotono, quando si conoscono degli accordi tanto suggestivi? Forse semplicemente ci si lascia vivere, aspettando con ansia il richiamo della perduta Sirena.
“Mi voltai e la vidi […] il volto liscio di una sedicenne emergeva dal mare. […] Sono Lighea, sono figlia di Calliope. […] Mi piaci, prendimi [...] Il maggior sortilegio di Lighea è proprio quello operato dal suono della sua voce: un po’ gutturale, velata, risonante di armonici innumerevoli. […] Il suo parlare era di un’immediatezza potente che ho ritrovato soltanto in pochi grandi poeti.”
La storia procede fino all’epilogo in cui, l’Allora e il Qui si ritrovano, si toccano e il cerchio ancora una volta si chiude. Come nel mito tutto torna in perfetto ed Armonico equilibrio.

“Ricorda, quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi: io sarò sempre lì e la tua sete di sonno sarà saziata”

P.S. Zingaretti conclude lo spettacolo con un regalo... “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”...A voi ogni possibile parallelismo!

giovedì 2 aprile 2009

Il confine FortApasc

E’ la sera del 23 settembre 1985, una canzone di Vasco Rossi viaggia sull’autoradio di una scassatissima Citroen Mehari verde pisello. Dall’alto, non le stacchiamo gli occhi di dosso, la dobbiamo seguire, è lui! Le vie tortuose di Napoli sono illuminate dall’arancione dei lampioni e dal bianco di una grande luna.
Così Marco Risi apre e chiude il cerchio del film FortApasc e lascia che sia la voce citofonica e scanzonata di Libero di Rienzo ad accompagnare lo spettatore-lettore nel racconto dell’ultima notte di vita di un ragazzo. Libero non smentisce il suo nome in una delle interpretazioni più oneste e pacate che abbia mai fatto. Per tutti i 108 minuti rivivifica il libero Giancarlo Siani, giornalista ventiseienne del Mattino di Napoli, morto ammazzato dalla camorra, per aver squarciato il velo d’omertà sulle connivenze tra politica e mafia nella Torre Annunziata degli anni ottanta.
Il film risulta veloce e dinamico, volutamente poco organico come il pensiero di chi sa che morirà di li a poco. Quattro mesi di vita, gli ultimi, ci passano davanti agli occhi, procedendo a ritmo di inchiesta; un puzzle viscoso, costruito per fatti, nessuno spazio per possibili interpretazioni. Così il regista riesce a creare una storia asciutta e poetica, dove la presa di coscienza di vivere in stato di guerra perenne, in una zona di confine (FortApasc, appunto), avviene gradualmente come in una catarsi collettiva attraverso le parole di un curioso osservatore, che diventa l’unico esempio possibile di redenzione. Siani non è un eroe è solo un comunissimo ragazzo che fa quello che ama fare e che sa fare meglio: informare. Non fugge, non si nasconde, non si lamenta mai, rimane radicato alla sua terra per raccontarla al meglio possibile a chi non la conosce ed anche a chi ci vive ma non si rende conto. Non può fuggire nè lamentarsi perchè è più forte di lui, non potrebbe esistere in modo diverso. La redenzione, però, non sempre si vuole, la redenzione è spesso scomoda e faticosa, perchè prima bisogna ammettere di aver sbagliato, ma un sistema che si pone come Stato alternativo fondato su regole proprie, difficilmente ammette qualcosa, si limita a preservarsi cristallizzato così come è, a qualunque costo! La redenzione che propone Siani sembra, dunque, sin dall’inizio, una lotta contro i mulini a vento, un Davide che scaglia pietruzze contro il gigantesco Golia. Questo giovane, impulsivo, appassionato, precario a tratti incosciente sa quello che è giusto e consapevolmente, come una spada, affonda il colpo, anche lui a qualunque costo.
Attraverso gli occhi del protagonista riflettiamo su una realtà che apparentemente non ci tange, ma nella quale siamo invischiati anche noi, perchè potenzialmente siamo tutti Siani nella scelta del prendere posizione e di vivere una vita veramente informata e consapevole. Ci si interroga sul paese, sulla sua classe politica, sulla magistratura e sull’informazione, ognuno gioca un ruolo a sè stante ma collegato agli altri. Si arriva, così serenamente, ad ammettere che l’Italia non è un paese per giornalisti-giornalisti, è un paese per giornalisti- impiegati, come a dire che è il sistema stesso a non volere libertà: chi è troppo libero, anche se nel giusto, paga ... paga con la vita, paga con il non poter avere una casa, una famiglia, un cane, una vita normale insomma, perchè semplicemente viene fatto sparire (Attenzione al dialogo con il redattore capo della sede distaccata del Mattino a Torre Annunziata).
Il film scivola via e senza accorgercene siamo già all’epilogo che conosciamo, ma che non vorremmo fosse vero.
Le luci si riaccendono, la platea intera è gelata, il loro sangue come il mio si è fermato, l’ultima immagine che abbiamo negli occhi è quella del vero Giancarlo con la faccia dipinta di bianco e sulla guancia il simbolo della pace, forse durante una delle tante manifestazioni di operai organizzati alle quali aveva preso parte. Un ragazzo, non era che questo. Uno che con le sue sole forze e senza abbandonare il campo ha sempre continuato a cercare la verità e per quella ricerca è morto. Uscita dal cinema non posso fare a meno che pensare... “Infondo quello era il 1985, ne sono cambiate di cose, molti boss oggi sono in galera e la stampa nazionale non si spertica a raccontare di mafia così spesso! Vorrà dire che le cose non stanno più così!”... Poi rinsavisco e mi viene in mente il caso Saviano...Saviano che se messo a confronto con Siani mostra tutto il suo limite divistico e me lo fa apparire più per uno scrittore-venditore, che per un giornalista. Non è questo che importa, non è la mutazione genetica dell’informazione a preoccuparmi (per lo meno non in toto) è la consapevolezza di vedere che le cose non cambiano, che non si può mai abbassare la guardia! Mi viene in mente su cosa gioca questa gente: sull’omertà, sull’agire sottobanco tenendo sotto controllo chi effettivamente li traduce per come sono, senza accarezzarli e compiacerli ed allora mi assale la paura come quella dell’Uomo nero, una presenza che si muove nel buio ma che non puoi toccare o vedere se non per gli effetti di terrore che produce.