martedì 27 maggio 2008

Lettere alla fidanzata



"Mia cara Ofelia, io non so rimare,
mi manca l'arte di dir verseggiando
i miei sospiri; ma ch'io t'ami tanto,
eccelsa, tu non devi dubitare".


(Shakespeare, Amleto, Atto II, Scena II)





Così Fernando Pessoa dichiara il proprio amore alla giovane fidanzata Ophélia Queiroz, destinatario di un "corpus" prezioso, pur nella sua esiguità, di "cartas", lettere raccolte in volume nel 1978 e pubblicate in Italia nel 1988 presso la casa editrice Adelphi.

Non è dove riposa la poesia del quotidiano ciò che stiamo domandando a un Pessoa, afflitto-affetto dall'angina, dall'insonnia e da un trasloco familiare, che ha tutta l'impellenza di un ritorno all'ordine. Che cosa simboleggia, infatti, una casa, la ricerca di una casa (in un sardonico ribaltamento della "queste" cavalleresca, non più oggetto e fine dell'erranza, ma della permanenza), per chi ha radici possibili solo in un "altrove"?

A spingerci neanche il voyeurismo di un micro-cuore in prestito o in affitto, ma la possibilità di sondare il terreno mixato (minato-contaminato) della finzione, dell'alterazione di un sè, solo apparentemente rinnegato. Negazione affermativa, quella che partorisce il "doppio" (bilocale mansardato, concesso in usufrutto alla contraddizione, al dir-si contro, che è un dirsi di più, in più).

La fidanzata è, dunque, pretestuosa interlocutrice in un colloquio tutto privato, incentrato sul "fatto di essere 'pessoa'". Il gioco di parole attorno al significato del cognome (in portoghese, "persona") ne costituisce una spia linguistica. Basti pensare che il latino "persona" racchiude e assembra i concetti di maschera e di personaggio e quello seriore di personalità, in un culto dell'individualismo ancora tutto da farsi.

Una difficoltà di arginare il "molteplice in uno", palesata da Pessoa nell'investire di responsabilità la sua destinataria ("Vuole bene a me perchè me è me o perchè no?"), eletta, in una prima fase del controverso rapporto, complice ideale nel tentativo di "fingere", di erigere, velleitariamente, un edificio di ordinaria felicità. A ragione, Antonio Tabucchi, curatore del "libello", riporta, quale epigrafe alla post-fazione, un passo di una lettera di Kafka a Felice Bauer: "Hai tanto potere su di me: via, trasformami in un uomo che sia capace di ciò che è ovvio".

Poggiata su un basamento tanto fittile, la costruzione di Pessoa cede a un io sismico: "[...] esigere da me i sentimenti, del resto degnissimi, di un uomo normale e banale, sarebbe come pretendere che io avessi gli occhi azzurri e i capelli biondi". Se, dunque, il "borghesismo" di Pessoa (o di "un" Pessoa) si connota come un'affezione patologica, un'inclinazione o una qualità da delegittimare, un'eco della stessa malattia cogliamo nelle parole di un altro votato alla stessa impossibile felicità: "Ma il mio amore più profondo e riposto è per i biondi, per quelli dagli occhi azzurri, per i felici puri, per i fortunati, per gli amabili e i mediocri" (Mann, Tonio Kroger).
L'assenza di cura determina lo slittamento nella precarietà di senso: la poesia diventa dimensione di un assurdo più vero del vero. Finchè si fa "[...] silenzio nella stazione/ a discrezione dell'utente".

sabato 10 maggio 2008

mmmh mmmh... Elucubrazioni !


Ora mi metterò ad elucubrare, più o meno sistematicamente, su alcune "immagini mentali", attraverso accostamenti, salti logici, analogici, fantasmagorie (quanto mi piace usare questo termine), per puro malsano mio divertimento (tra l'altro qualcuno mi ha fatto notare da poco come l'etimologia di "divertire" descriva l'atto di "guardare altrove, volgersi altrove", ma anche di "divellere", per vicinanza, cioè portare fuori, come per strappo o smottamento), che seguendo il principio del blog, condivido e metto in circolo.

Parto, come in un percorso a ostacoli in cui gli ostacoli si tramutano in opportunità, dal concetto di Gestalt. Preso direttamente, nessuno lo direbbe mai, dalla psicologia della Gestalt o della forma, qual la si voglia chiamare. La quale ha per peculiarità l'aver teorizzato la presenza di quella "sostanza" esperenziale che non è riducibile alla somma delle componenti minime di un'esperienza, rifiutando così un approccio riduzionista (per cui "l'intero è dato dalla somma delle parti"). Così per l'appunto può anche dirsi esserci in ogni esperienza una gestalt: una sostanza sovraordinata, un plus-valore, un "quid".
Forse riferendosi allo stesso oggetto nelle sue peregrinazioni letterarie così odissiache, James Joyce nel Dedalus, parlava di "quidditas". In realtà, come egli stesso precisa, la quidditas più propriamente è l'essenza, in tale termine può leggersi concentrato tutto un certo scivolamento occidentale verso la metafisica, precisazione dovuta al solo fatto che diciamocelo... gli "scivolamenti" piacciono!! Ma Joyce non la prende, per ciò per cui si è formalizzata: il proprio "concetto agglomerato" che si evolve lungo una tradizione; ma la assume nel suo aspetto si potrebbe dire più fenomenologico, legato alla circostanza, al momento estetico.
Citando direttamente dal testo:

"Ti rendi conto che si tratta di quella cosa che è, e di nessun'altra cosa. La radiosità di cui parla San Tommaso è la quidditas scolastica, l'essenza di una cosa. Questa qualità suprema viene sentita dall'artista solo dopo ch'egli ha concepito nella propria immaginazione l'immagine estetica. Shelley ha mirabilmente paragonato la mente, in quell'attimo misterioso, a un carbone acceso che va languendo. L'attimo in cui tale qualità suprema della bellezza, il limpido splendore dell'immagine estetica, viene luminosamente percepita dalla mente, arrestata dalla sua integrità e affascinata dalla sua armonia, è la stasi luminosa e silenziosa del piacere estetico, uno stato spirituale assai simile a quella condizione cardiaca [... chiamata...] malia del cuore."


E' facile riconoscere in queste righe i prodromi della teoria estetica ben famosa di Joyce, tutta ruotante intorno all'epifania; anche se non è sempre facile riconoscere i prodromi, questi enormi esseri parenti dei pachidermi che hanno la fama di essere i primi consiglieri per fervida creatività dei cugini, famosi per la memoria. Tale ad ogni modo pare essere l'intenzione del testo: descrivere alcuni momenti dell'esperienza del bello e attraverso un lampo d'intuizione tentare di "definire", spingersi alla fine, vecchio vizio dopotutto...(certo da non confondere con l'intenzione di Joyce, ma semplicemente con la messa in scena nel romanzo di uno dei comportamenti concernenti l’arte).
Allo stesso modo affascinate, mentre percorro quest'erta sisifica che io preferisco salire a zig zag (come quando si è davanti ad una scalinata faticosa che si crede sia meno faticoso salirla imitando il movimento tipico della pallina dell’Arkanoid, per chi non lo sapesse è il videogioco con la pallina che rompe i mattoni, più vecchio del mondo, vabbé...) dovrebbe essere accostare tale approccio estetico alla generalità dell'esperienza secondo la teoria gestaltica, ossia alla totalità delle situazioni in cui ha un ruolo la coscienza. Resta quindi una sovra-sostanza estetica in ogni esperienza, presa nella sua forma più generica e propria: il campo stesso in cui entrano in gioco gran parte degli aspetti che caratterizzano l'umanità, da quelli più propriamente biologici a quelli che lungo i secoli, fino a questo nel quale probabilmente si rifiuta il termine, ormai tabù (forse dovrei scriverlo “taboo”, le due “oo” sono più iconiche e in questo termine assolutamente pedagogiche), si sono detti spirituali.

E qui il mio balzo logico, e la fascinazione che subisco dalla contorsione da circo ambulante che fa la mia mente, che non ha mai superato l’idea infantile di diventare il cervello armonico del più grande trapezista russo del 21° secolo, mi porta a pronunciare ciò:

“Riconoscendo possibile sempre un’esperienza estetica come gestaltica, un’epifania, si afferma una valenza metafisica o ontologica indefinibile, un patto estetico tra esseri umani che ne riconoscono il valore. Il valore che non è riducibile, se anche scomponibile, alle sue parti e che pur prevede una riconoscibilità data dal consorzio umano, porta direttamente a pensare al plus-valore. La riconoscibilità, labilissima e incorporea, è traducibile con “contratto”. I termini della questione si fanno economici, “il prezzo” immediato e pragmatico, direi quasi l’oggetto più deterministico, traduce la quidditas, l’oggetto più trascendentale. Di teorie del prezzo non sono in grado di parlarne. Non ho competenza. E il discorso preso con determinato taglio, quale potrebbe sembrare il mio così umanistico, farebbe pensare, non a torto certo, alla “fantasmagoria della merce” di cui parla Benjamin in relazione alla perdita di sacralità dell’arte (qui mi accorgo io stesso di come fosse strano aver già detto che il termine mi piaceva, proprio all’inizio, eppure non avevo pensato nulla di tutto ciò prima...ualà, capriola in aria sulle teste degli spettatori). Ma l’intenzione è diversa, non voglio denunciare, mi trovo solo ad accorgermi di come sia eccezionale la casualità di trovare similarità che accomunino ambiti così diversi.

Un intero sistema mondiale che si regge su una forma d’Arte: l’Economia.

E pensare che in molti ritengono morto qualsiasi sufflato d’ispirazione artistica. E se siamo tutti ad adorare il Dio denaro, allora aveva torto Benjamin, non si è persa affatto la sacralità dell’arte, si è transustanziata nel Dollaro. Forse così è anche più comprensibile il genio della pop art. E il percorso di una massa, che è stata per costitutività antropologica apostolizzata all’assoluto metafisico: “il valore del prezzo”. Penso al Dio immanente spinoziano, sarebbe una perfetta definizione, anche per gli aspetti metafisici della questione, della trascendenza necessaria di ogni identità singola, nel “consorzio”, quasi nella cooperativa, fin su alle Corporation.”

Gioco certo con le provocazioni, ma non per svuotare d’importanza alcune ellittiche affermazioni, sto cercando dei riflessi, delle continue rifrazioni, cercando di aprire a nuovi spunti...chissà!!

E pensare che c’è una teoria evoluzionistica contemporanea il cui promulgatore è un certo Dawkins, che afferma che lo scopo dell’evoluzione non è la sopravvivenza della specie, ma quella dei geni (ovviamente non parlo di quegli esseri umani leggendari con capelli bianchi spettinatissimi baffetti e occhiali tondi), che ci usano per diffondersi e migliorarsi. L’unica cosa che conta sono le informazioni. Come se tendessimo a fare tutto per mantenerne il più possibile. Siamo archivi ambulanti, una specie di burocrati...e pensare (il mio cervello sta pensando) che il mio cervello avrebbe voluto solo piroettare in continuazione a svariati metri dal suolo per un tempo imprecisato...!!!